Da giugno 2013 il Washington Post ha introdotto il suo paywall: sul quotidiano del Watergate sarà possibile leggere fino a venti articoli gratis al mese, dopo si dovrà sottoscrivere un abbonamento. Così il Guardian è rimasto l’unico quotidiano online di alto profilo e con un’utenza globale a offrire tutti i contenuti web senza far pagare nulla (anche se le edizioni mobile hanno un costo fisso mensile). Della questione hanno parlato David Carr e Ken Auletta nel programma News Hour della Pbs e Matthew Ingram su Paid Content.
Per Carr e Auletta, editorialisti del New York Times, ora per il Guardian “introdurre il paywall è un imperativo morale”, altrimenti farà “concorrenza sleale” agli altri quotidiani. Far pagare le notizie online serve a supportare in futuro proprio quel giornalismo investigativo che ha permesso di documentare il Datagate. Per i due giornalisti del Nyt il paywall è anche una scelta che il quotidiano britannico è obbligato a fare per arginare le sue perdite: “Il Guardian è gestito dallo Scott Trust, che gli garantisce un flusso di cassa continuo e condizioni da stato socialista. Per nove anni consecutivi si è potuto permettere di essere in perdita”. Il trust che finanzia il Guardian è si finanzia con Auto Trader (rivenditore di auto nuove e usate nel Regno Unito), è senza scopo di lucro e, per statuto, “mantiene il giornalismo libero da interferenze economiche o politiche”. Secondo Auletta, questa condizione favorevole non è un alibi a mantenere i conti in rosso.
I due giornalisti del Nyt ritengono che, per il Guardian, proprio questo è il momento giusto per iniziare a far pagare le notizie online: l’attenzione suscitata dalla vicenda di Snowden è l’incentivo perfetto per avviare una campagna di abbonamenti.
Non tutti però la pensano come Carr e Auletta. Per Emily Bell, docente alla Columbia Journalism School ed ex direttrice dell’area digitale del Guardian, il paywall è “una strategia a breve termine”, mentre i valori del giornalismo promossi dal quotidiano britannico vanno oltre i costi di produzione. Il modello di Open journalism su cui si basa il Guardian infatti potrebbe non funzionare se l’accesso fosse limitato agli abbonati il che implica un’idea elitaria del giornalismo. La comunità liberal e anti-autoritaria del quotidiano britannico, invece, è cresciuta negli anni grazie alla disponibilità delle notizie e alla possibilità di interagire in modo attivo con le notizie, dando ai lettori la possibilità di produrre contenuti e anche di scaricare i dati grezzi dal celebre Datablog per elaborarli in autonomia. Tutto ciò sarebbe impossibile da creare con un paywall.
Come fa notare Dean Starkman sulla Columbia Journalim Review, il quotidiano britannico non è uguale al New York Times o al Washington Post, perché non è un’azienda: il suo statuto è quello di una fondazione. Non deve fare profitti, deve solo fare attenzione a non perdere troppi soldi. Il flusso di cassa garantito dallo Scott Trust non è un pozzo senza fondo e, come fa notare Auletta sul New Yorker, nel 2012 ha speso più soldi degli anni precedenti. Ma, mentre gli introiti provenienti dall’edizione cartacea sono in declino, quelli dal digitale sono cresciuti di quasi il 50% negli ultimi due anni: oltre dagli abbonamenti alle app, i ricavi provengono dalla pubblicità online.
Al netto delle motivazioni etiche, un altro argomento contro il paywall è l’esempio della Bbc: la tv pubblica inglese impiega migliaia di giornalisti (contro i 600 del Guardian) e i suoi servizi online sono gratuiti per gli utenti. Per ora, continua Starkman, l’obiettivo del quotidiano è contenere le perdite, ma bisogna essere consapevoli che sta per arrivare il tempo in cui il Guardian dovrà chiedere l’aiuto dei lettori.