E’ l’età  dell’inquietudine – Emanuele Pirella. Il ricordo di Prima Comunicazione (Prima n. 345, novembre 2004)

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E’ morto oggi, 23 marzo 2010, Emanuele Pirella, uno dei più noti pubblicitari e creativi italiani, fondatore dell’Agenzia Italia/BBdo, di Lowe Pirella e della Scuola di Emanuele Pirella. Nato a Reggio Emilia nel 1940, Pirella è stato anche autore in coppia con il disegnatore Tullio Pericoli della striscia ‘Tutti da Fulvia sabato sera’ su Repubblica.
Pirella è stato tra i soci fondatori di ‘Prima Comunicazione’. In occasione del trentennale del mensile (novembre 2004) ha raccontato come testimone cos’era successo in quei trentanni nel mondo della pubblicità .

“E’ l’età  dell’inquietudine, della depressione. Negli ultimi spot, oggi anche in quelli italiani, sono entrati l’incubo, il malessere, la violenza, la morte”

Gli anni non stanno mai fermi. Non solo nel senso, ovvio, che passano. Ma nel senso che solo dopo si sistemano, permettono di essere capiti, messi un po’ in ordine, etichettati.
Gli anni Settanta sono stati giudicati in un modo negli anni Ottanta, in un altro negli anni Novanta, e oggi rispuntano con una faccia ancora una volta
mutata. E di sicuro non con quella definitiva.
Quando   Prima Comunicazione – per gli amici Prima – nacque, la pubblicità  era appena uscita da un giardino d’infanzia. Erano arrivate le grandi agenzie internazionali, con i loro nomi impossibili, Young & Rubicam, Leo Burnett, Mac Manus Masius, Ted Bates, McCann Erickson. E si erano comprate i più innocenti e ingenui studi grafici dai nomi accattivanti, la Omnia, la Radar, la Orma, la Sigla. Grandi soldi per tutti, naturalmente. Per i titolari degli studi, tenuti con il titolo di presidente un po’ a comandare ma molto a obbedire a signori d’Oltreoceano che erano arrivati ad affollare le agenzie con i nomi più misteriosi, da account director a copy chief. Anche il ragioniere che teneva i conti era stato sostituito da un chief financial officer. Si diceva che un po’ di queste persone, quelle che lavoravano pochissimo, con i capelli corti corti, in realtà  erano agenti della Cia. Ne ospitava un po’ la J. Walter Thompson, si diceva, un po’ la Young & Rubicam, un po’ la Leo Burnett. Scomparivano a studiare il mercato tedesco o la distribuzione nel Sud Italia (o si chiudevano a scrivere lunghi rapporti?).
Intanto i reparti creativi delle agenzie, i neonati creative departments affollati da copy writers, da art directors, da art buyers, da producers, studiavano le foto più belle, le immagini più accattivanti, mettevano il mondo in bella copia. Era una realtà  abitata dai buoni sentimenti, dalle belle famiglie, da prodotti che davano la felicità , dagli happy end. I bambini percorrevano quelle trame senza fare cattivi incontri. Male che andasse, l’antipatico della storia veniva smascherato e punito dopo dieci secondi. Gli intrecci erano così semplici e lineari che gli studiosi, per analizzarli a un certo livello, erano costretti a complicarli. Utilizzavano gli strumenti di Propp dalla ‘Morfologia della fiaba’, prendevano gli studi di Bachtin sul folklore, mettevano al lavoro le categorie di Roland Barthes. E, con loro grande gioia, qualcosa di oscuro, finalmente, finiva per venir fuori.
Era l’età  dell’elegia, infantile e solare.
La voce della pubblicità , allora, fu da subito come quella di papà  e mamma. Non sudare, mettiti la sciarpa che farà  freddo, non parlare a bocca piena, smettila di usare il dialetto, non dire quelle parole, onora la patria e, naturalmente, il padre, la madre e la pubblicità .
C’era un automatico spostamento verso l’eufemismo. Stava nascendo una lingua finta, lambiccata, di scarsa espressività , ma dominante nei nostri testi. Ci insegnavano a dire ‘acquistare’ invece di ‘comprare’, ‘gustare’ invece di ‘mangiare’. Si parlava di ‘gusto’ non di ‘sapore’, si preferiva ‘cogliere’ a ‘prendere’.
La rottura dell’elegia non venne in un giorno solo. La radio, con Arbore e i primi deejay, non parlava più così. I giornali stavano abbandonando elzeviri e terze pagine. Panorama e L’Espresso avevano scelto un registro più secco, semplice e parlato l’uno, espressionistico e d’autore l’altro. Si stavano infrangendo i miti del discorso pubblicitario. Era il ’68, arrivato nei primi anni Settanta. I consumatori non ci credevano più. Non stavano più a sentirci. Le belle favole erano finite. Esaurito il ‘ben fatto’. Cominciava un’altra era: il momento dell’ironia.
Nascevano, naturalmente, agenzie fondate da giovani.
Nasceva l’agenzia Italia, destinata a essere il punto di riferimento della creatività  pubblicitaria per tutti gli anni Settanta. Nascevano la B Communication, la Tbwa Italia, la Mac, la Pubblimarket; diventavano agenzie lo studio Testa, la Leader e la Ad Marco di Firenze.
Eravamo perfettamente coscienti che era stata annullata quella sospensione dell’incredulità  della quale il pubblicitario fa tesoro. Per le strade, sotto le finestre, i ragazzi si scontravano con la polizia in nome di una rivolta contro l’autorità . Quella dei genitori, quella degli insegnanti, quella degli intellettuali, quella delle istituzioni. Immaginarsi il loro umore verso coloro che si esprimevano in favore di un prodotto.
Bisognava escogitare una manovra avvolgente, un modo di fare che non ricorresse più agli imperativi, ai punti esclamativi, all’obbligo. Per ristabilire un contatto con chi avrebbe dovuto ascoltarci, bisognava ricercare una forma di coinvolgimento, un discorso fatto per allusioni, compiuto per metà . L’ascoltatore avrebbe riempito l’altra metà , come succede nel colloquio quando all’interlocutore sembra mancare una parola, mezza frase. E tu la completi.
Erano, dopo l’elegia, gli anni dell’ironia.
L’ironia è quell’atteggiamento retorico che cerca di affrontare l’ostilità  dell’uditorio, dandogli ragione su fatti accessori per poi convincerlo sull’argomento principale. Sulle pagine stampa, fu il momento dei titoli lunghi. La prima frase rendeva espliciti i dubbi del lettore sul prodotto, le sue prevenzioni. La seconda cercava di riscattare tutto. Tata tatata tata. Taratata. La musica era questa, le parole cambiavano di prodotto in prodotto. Flaiano e Longanesi ci vegliavano dall’alto. Per il lancio di un mensile, scrissi: “C’era una volta la natura. C’è ancora”. E per Panorama, ai tempi di Lamberto Sechi, capitò di immaginare un’affissione a mezze parole, a mezze frasi, una campagna da completare. Interattiva, si direbbe oggi. Grandi formati, sei metri per tre metri, tanti soggetti diversi, l’uso puro e semplice del carattere tipografico, e titoli come inizi di articoli con puntini di sospensione a lasciar sospesa la frase intera. “In questo preciso momento Agnelli sta facendo…”, “La Cia ha deciso che…”, “Prima della fine di marzo, la lira…”, eccetera.
Volevamo comunicare che Panorama era già  lì al momento del farsi della notizia, ancora prima che si compiesse, che diventasse un paragrafo intero. Gli spazi bianchi erano, naturalmente, un invito a completare mentalmente le mezze frasi ma anche, armati di pennarello, a scrivere fisicamente il proprio parere.
Nei manifesti affissi in metropolitana, a livello dei mezzanini, dove si aspetta con noia l’arrivo del convoglio, fummo ancora più audaci. Il titolo era un invito esplicito: “Scrivi qui cosa pensi della droga”, “Scrivi qui cosa pensi della religione”, della politica o del sesso. Sotto, delle righe a guidare l’intervento dei graffitari dilettanti. Al mattino i manifesti erano belli puliti. Alla sera, pieni di scritte, di pareri, con penne di vario colore, grafie differenti, segni personalissimi. Insomma, il visual lo avevano fatto loro, senza nessun controllo da parte nostra. Sotto, a commentare la congerie e la contraddittorietà  dei commenti, il marchio della rivista Panorama e una scritta: “Ma non è meglio essere più informati?”.
Ogni notte i manifesti venivano cambiati, in modo da offrire la possibilità  di intervento, la mattina dopo, su una superficie pulita.
Intanto, a meravigliare chi leggeva di attentati e di bollettini ciclostilati, dall’America arrivavano documenti e analisi dal titolo per noi fuori sincrono: ‘The age of me’. Stavano irrompendo in Italia gli anni Ottanta, senza che ce ne accorgessimo.
Sono stati anni, oggi un po’ rivalutati, giudicati da molti come un’epoca un po’ stupida. Sicuramente sono stati anni muscolari, nei quali l’esibizione del tanto ha trionfato sulla quieta produzione del meglio. Tanta velocità : gli aerei privati portavano gli importanti da Milano a Roma a Milano a Roma per quattro differenti meetings nel corso della stessa giornata. Tanto denaro: non solo i milioni di miliardi di deficit italiano, ma anche soprattutto i miliardi guadagnati in Borsa, i miliardi delle classifiche degli uomini più ricchi della Terra, i miliardi delle aste di Sotheby, i miliardi degli appartamenti nei centri storici. Tanta carta: i giornali si gonfiavano di pagine, di supplementi, di speciali, di inserti, di dépliant, di pubblicità .
Infine, tanta pubblicità .
È all’inizio degli anni Ottanta che Berlusconi comincia ad agire come metal detector di budget sommersi. La leggenda racconta il diverso modo di affrontare i possibili clienti pubblicitari di quello che, allora, era a capo di una piccola emittente privata chiamata prima Telemilano, poi Canale 5. Un camper attrezzato a ufficio, a camera da letto, a salotto e cucina ospitava Silvio Berlusconi nella sua caccia agli imprenditori sconosciuti.
Da Empoli a Taranto, da Pordenone a Settimo Torinese, da Zola Predosa a Pomezia: l’autista guidava la notte da un giacimento all’altro dell’economia sommersa.
Alla mattina alle 9, Berlusconi usciva dal camper fresco di dopobarba, con le mentine in tasca, pronto all’incontro. Ogni puntino sulla carta geografica, una riunione con un industriale. Ogni industriale incontrato, l’impegno a investire una bella cifra su Canale 5.
È grazie a questo fiume in piena che la spesa pubblicitaria, negli anni Ottanta, straripa con percentuali superiori a quelle degli altri Paesi, come se l’intero mercato avesse fatto uso di anabolizzanti per sopportare il peso benedetto ma schiacciante dei nuovi budget. Ci sono state agenzie che, invece di diventare grandi, sono diventate grasse.
In mezzo a tanto ottimistico gigantismo, anche la qualità  creativa cercava più il tanto che il meglio. Perché ricorrere alla finezza quando si può far leva sulla grossolanità ? La finezza è faticosa e comporta dei rischi. La grossolanità  vien giù facilmente e ha un ascolto garantito. Quasi come le canzoni di Sanremo.
Le auto correvano lungo paesaggi visti, prima di allora, solo nei quadri di Poussin. Salire sui treni significava entrare, minimo minimo, in casa di una nobildonna veneziana.
Il mondo è bellissimo, ci diceva questa pubblicità , solo un po’ competitivo. Ma niente paura. È come in Borsa. Si vince tutti.
Far soldi dando a vedere di osservare i vecchi, stabili valori: la mamma, la famiglia, l’Italia, la casa. Direttore creativo di queste campagne, c’è da giurarci, era Ronald Reagan in persona.
Oppure lo spot asintattico, salterino, pseudocolto, lo spot di poesia. Gli anni Ottanta l’hanno visto apparire qua e là , poi infittirsi improvvisamente, diventare un diluvio, stancare al primo sguardo.
Era in bianco e nero, perché la poesia mal si concilia con il colore. Niente dialoghi, né parole. Solo una canzone, meglio se nota, a far da spiedino alle immagini.
Imitava la maniera dei videoclip: dadi per brodo raccontati come se fossero profumi. Insomma, erano alla ricerca del sublime, ma quasi sempre si fermavano un po’ prima, a una sequenza da album fotografico. Bravo l’operatore.
Era, appunto, l’età  dell’io. La riscoperta del corpo come organismo da far funzionare al massimo, l’affermazione dei simboli di stato costosi ed esclusivi, l’aspirazione a entrare in un mondo di abitudini alte da ostentare, una capacità  di spesa sempre più grande. I danni collaterali li stiamo calcolando ancora oggi.
La rottura fu drammatica, una discontinuità  come non si era mai vista. I ricercatori che avevano messo a punto delle mappe secondo indici demografici e psicografici se le vedevano improvvisamente scompigliare. Le categorie nelle quali erano stati divisi i vari strati della popolazione non avevano più corrispondenza con la realtà .
Si disobbediva ai partiti: ne nascevano di nuovi. Si abbandonavano le ideologie: nascevano comportamenti disallineati. Si disobbediva all’idea di nazione: nascevano le piccole patrie. Si disobbediva alle marche: si acquistavano agli hard discount dei prodotti a basso prezzo senza marca. Stocchisti diventavano miliardari, offrendo le collezioni invendute a metà  prezzo. Mai il prezzo era stato osservato con tanta attenzione. E mai scadenze, ingredienti dei prodotti, assenza di conservanti e coloranti erano scrutinati con tanta diffidenza.
Gli stilisti non dettavano più moda. Si toglievano i loro simboli dai prodotti, si acquistavano, coscientemente, con volontà  punitiva, le false Lacoste, i falsi Rolex.
Prese di sorpresa, le aziende tardarono a reagire. Alcune ridussero i prezzi. Altre lanciarono delle seconde linee più economiche. Altre cercarono di difendere fatturato e immagine, dedicandosi a una diversificazione dell’offerta.
I consulenti predicarono una maggiore attenzione al rapporto tra qualità  e prezzo. E misero in guardia verso un consumatore che non era soltanto più esigente o più maturo. Era assolutamente riottoso. Si disse che le comunicazioni pubblicitarie avrebbero dovuto essere più informative, più fattuali. Che avrebbero dovuto battere di più sugli aspetti razionali del prodotto, sulla maggiore qualità  degli ingredienti, sulla migliore performance, sui segreti di fabbricazione. Barilla, che negli anni Ottanta aveva a lungo raccontato i benefit emotivi del prodotto (‘Dove c’è Barilla c’è casa’), investì in una comunicazione sui campi di grano.
E si affermò l’infedeltà  ai prodotti, l’incoerenza nelle scelte di consumo. Si passa da un oggetto all’altro, mescolando una cintura di Prada con una T-shirt della Upim. Si fa surfing tra le scelte, tra i punti vendita. Si segue un palinsesto tutto proprio. È nel dettaglio, nel particolare che si sceglie di comunicare la propria identità . Non abbiamo più bisogno di niente. Meno che mai di una nuova caffettiera. Ma se è una caffettiera disegnata da Aldo Rossi, allora magari scatta come ai tempi belli il desiderio. E il marketing deve essere in grado di padroneggiare concetti sottili e sfuggenti, deve sapersi rivolgere alla mia depressione, farmi tornare a essere una macchina desiderante.
Deve essere in grado di sognare il mio stesso sogno.
Anche in comunicazione, si cerca di costruire un vero e proprio territorio simbolico della marca attraverso una pluralità  di strumenti d’intervento. Gli eventi, le relazioni pubbliche, il co-marketing, il product placement, Internet, l’ambient advertising fanno da contorno alla cara e vecchia pubblicità . Che, nel frattempo, è cambiata, ancora una volta, di tono.
Come nelle previsioni dei meteorologi, vediamo spirar giù dall’Inghilterra un’aria cupa che porta ai ghigni gotici, alla deformazione grottesca, all’incubo.
Un famoso spot per Nike immagina, in un’arena disperata, una partita a calcio tra demoni e calciatori, con tackle omicidi e ali da pipistrello dantesco. Le gomme Dunlop, per giustificare il finale ” Previste per gli imprevisti”, mettono in scena una specie di divinità  grassa e maligna che lancia per strada, con l’aiuto di streghe e di altre presenze deformi, biglie d’acciaio, repellenti sostanze, ostacoli ributtanti.
È il regno del gotico, nel suo versante più disordinato, cattivo, selvaggio. Questo influsso, così lontano dalle nostre capacità , si combina con un’altra aria potente che scende dalla Scandinavia.
Più burlona, questa, più accesa di colori, ma anch’essa contraria a ogni minimalismo. Sono campagne dove imperano doppi sensi, panciuti uomini nudi col sesso eretto, soprano sopra il quintale, sfighe colossali, gran mangiate, saune di second’ordine: un’ispirazione comica di sapore espressionistico.
È l’età  dell’inquietudine, della depressione. Già  era saltato quello che sembrava il limite invalicabile per la pubblicità , il lieto fine, quello che prevede un lieve inciampo risolto dal prodotto. Negli ultimi spot, oggi anche in quelli italiani, sono entrati l’incubo, il malessere, la maledizione, la violenza, la morte. E, per dirla con Omar Calabrese, la ripetizione, l’eccesso, il decentramento, la metamorfosi, lo smarrimento, la complessità , la degenerazione, l’imprecisione, la distorsione, la perversione.
Lo spot Bmw ‘Nessuno è perfetto’ con quella sfilata di donne strabiche, con nasi prominenti, con denti diradati. Neo-Borocillina con i colli allungati in modo abnorme. La G del pelo pubico della ragazza svestita Gucci. Fiat Palio con lo sgarbo dell’automobilista verso il ciclista che si appoggia. Vigorsol con il bacio alla pecora e la protagonista femminile sdentata. Chloralitt con i capezzoli maschili in erezione. Levi’s con i ragazzi decapitati e la testa tenuta sotto il braccio. Il collare ortopedico della modella per i gioielli Fope. Microsoft con il bimbo appena nato, espulso dalla partoriente fino al tragitto nella tomba: life is short, play more. La peste e i morti della birra Stella Artois, il morto del profumo Moschino, il cadavere delle scarpe Stenfoot.
E l’enigma.
Chi li capisce più questi spot da trenta secondi montati con 38 stacchi? Dove tutto è frenetica allusione a qualche cosa d’altro che non si conosce, non si capisce, non si vede? Il linguaggio degli spot è diventato come quello dei sogni: ambiguo, sfuggente, privatissimo. Andrebbe dipanato con l’aiuto degli psicanalisti.
Trenta, quaranta anni fa la pubblicità  era un giardino d’infanzia. Forse lo è rimasto ancora, ma dalla parte del tunnel degli orrori o del castello delle streghe. Era una mistificazione ‘Torna a casa, Lassie’, come è una mistificazione qualsiasi film del filone horror o fantasy, in testa oggi alle classifiche.
Tutto sembrerebbe essere solo e puramente pubblicità .
Ciò che inquieta, piuttosto, è che l’orrore degli effetti speciali sembra assomigliare pericolosamente alla realtà . Che tra un telegiornale e la fiaba pubblicitaria non sembra esserci più soluzione di continuità .

Emanuele Pirella

Scarica il pdf con l’intervento di Emanuele Pirella sul Trentennale di ‘Prima Comunicazione’