A cavallo del futuro – Intervista a Stefano Mauri, presidente e amministratore delegato del Gruppo editoriale Mauri Spagnol (Prima n. 416, aprile 2011)

Condividi

A cavallo del futuro
Che fine farà  il nostro amato libro? E soprattutto che fine faranno gli editori? Il loro è per sua natura un mestiere strabico: un occhio rivolto al passato, a quell’immenso serbatoio che definiamo conoscenza, e l’altro fisso sul futuro, perché in fondo ogni nuovo libro è una scommessa sulla buona accoglienza che i lettori gli riserveranno.
Con l’irruzione delle nuove tecnologie molte delle tradizionali pratiche dell’editoria hanno già  subito una violenta accelerata (la negoziazione dei diritti, ormai rapidissima e globale, è un esempio lampante). E da quando sulla scena è comparso l’ebook, cioè il libro digitale che elimina carta e stampa e rivoluziona il processo di distribuzione e di vendita, l’eccitazione è salita alle stelle. Ma se negli Stati Uniti l’ebook ha una quota di mercato vicina al 10%, secondo le ultime stime in Italia copre un misero 0,7% (e nel resto d’Europa non è molto diverso). Intanto negli ultimi due anni si sono moltiplicati i pareri degli esperti sui media, sono stati organizzati innumerevoli convegni e tavole rotonde, sono uscite decine di libri sulla trasformazione digitale dell’editoria, amplificandone enormemente la percezione prima ancora che un solo ebook di produzione italiana venisse messo in vendita.
Un paradosso? Albert Einstein, che, sul futuro veniva spesso interrogato, liquidò la questione con una battuta fulminea: “Non penso mai al futuro. Arriva così presto”. Lo stesso potrebbero dire oggi gli editori, perché se l’essenza del loro mestiere non cambia, come tutti i mezzi di comunicazione di massa anche il libro è istantaneamente toccato da ogni innovazione tecnologica. Tanto più che i maggiori protagonisti del mondo digitale, da Google ad Amazon, hanno subito terremotato l’editoria su punti cruciali come il diritto d’autore e il prezzo dei libri.
In questa corsa contro il tempo, per gli editori italiani il 2010 è stato l’anno della svolta, quello della nascita di numerose piattaforme di distribuzione digitale e dei primi ebook pubblicati. Ne parliamo con uno degli editori più presenti nel dibattito in materia, Stefano Mauri, presidente e amministratore delegato del Gruppo editoriale Mauri Spagnol (controllato dalle Messaggerie italiane e partecipato dalla famiglia Spagnol e da Andrea Micheli). Non a caso ‘Tempi digitali’ è stato il tema della giornata conclusiva del 28esimo seminario della Scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri, che si svolge ogni anno a fine gennaio alla Fondazione Cini di Venezia promossa da Messaggerie italiane, Associazione librai italiani e Associazione italiana editori. Una giornata di lavori che ha visto l’intervento di uno dei maggiori storici della proprietà  intellettuale, Adrian Johns, docente all’università  di Chicago, autore del saggio ‘Pirateria’ pubblicato da Bollati Boringhieri, e ha messo attorno a un tavolo per un confronto piuttosto serrato due rappresentanti dell’editoria – Teresa Cremisi, presidente della casa editrice francese Flammarion (controllata da Rcs MediaGroup), e John Makinson, chief executive officer di Penguin Group -, il responsabile Emea di Google Books, Santiago de la Mora, e Greg Greeley, vice president Amazon European Retail. Già , perché il punto è questo: gli editori da Google, da Amazon, e ora anche da Apple, si sentono minacciati. Però non possono, né vogliono, evitare il confronto con i grandi gruppi globali che dominano lo sviluppo digitale. Dunque il braccio di ferro è in atto.
Con Google, come si sa, la battaglia è sul terreno dei diritti d’autore che, sostengono gli editori, il gigante americano dei contenuti non rispetta nella sua opera di digitalizzazione delle opere considerate di pubblico dominio. Riassumendo la questione, Google ha già  digitalizzato 15 milioni di libri, si è beccato un sacco di cause da parte degli editori americani, ha raggiunto un accordo – 125 milioni di dollari e fine delle controversie legali in cambio della possibilità  di costruire un registro dei libri liberi da diritti d’autore – con l’Association of American Publishers e la Authors Guild che rappresentano molti editori e autori Usa, ma non tutti. Difatti c’è chi contro questo accordo ha presentato ricorso. Anche Amazon e Microsoft si sono opposti, considerando monopolistica l’iniziativa di Google. E gli editori europei si sono sempre pronunciati contro questa intesa. Morale: il 22 marzo il giudice federale Denny Chin ha sentenziato che Google può digitalizzare un libro solo con l’autorizzazione di chi ne detiene i diritti d’autore.
Prima – Mauri, è soddisfatto? Lei ha pubblicamente preso posizione più volte contro l’accordo con Google, che ha definito “un elefante nella cristalleria”, e ha rivendicato la possibilità  di una soluzione diversa.
Stefano Mauri – Intendiamoci, io non ho niente in contrario a una diffusione planetaria della conoscenza. Sono sicuro che nell’immediato l’umanità  ne guadagnerebbe in progresso. Peccato però che ci siano delle regole da rispettare. Noi editori lo facciamo e non capiamo perché gli altri non dovrebbero. Con la sua iniziativa Google distrugge la fonte editoriale dei libri, quella stessa fonte che con una parte del ricavato remunera gli autori. E nel medio periodo rischia di distruggere un sistema che finora ha garantito sia la sopravvivenza e l’indipendenza degli autori sia il pluralismo.
Prima – Nella sua sentenza il giudice Chin ha stabilito che è Google a dover verificare se un libro è libero da copyright e non, come stabiliva l’accordo, che tocca a chi possiede i diritti d’autore segnalare a Google un eventuale errore. Non era questo il punto più contestato dagli editori europei?
S. Mauri – Certo. Non credo sia ragionevole pensare che gli editori, che prima di pubblicare un libro già  hanno l’onere di verificare se è sotto copyright o meno, debbano farlo anche per conto di Google. Direi piuttosto che gli editori hanno tutto il diritto di pensare che il copyright viene fatto rispettare dalle istituzioni, così da dedicarsi tranquillamente ai loro affari senza dover fare da balia a Google.
Prima – Google parla di opere di pubblico dominio, fuori commercio, orfane. Finora tutto dimostra che è molto difficile capire quando lo sono davvero. Come mai?
S. Mauri – Quando Google ha presentato le prime liste di quelle che considerava opere fuori commercio, si è visto che in realtà  c’erano quasi tutte le opere in commercio. Google aveva verificato che l’edizione in hardcover fosse fuori commercio, ma quasi sempre in vendita c’era un’edizione tascabile, con un altro isbn: il codice che identifica l’opera anziché l’edizione. È poco usato, e in questo caso non esiste un algoritmo che stabilisca inequivocabilmente se il libro è ancora in vendita.
Prima – L’alternativa può essere il progetto europeo Arrow, coordinato dall’Associazione italiana editori?
S. Mauri – Sì, Arrow è un sistema promosso dagli editori per accertare rapidamente come chiarire la questione dei diritti. Gli editori europei, non dimentichiamocelo, controllano più o meno il 65% del copyright che conta sul mercato librario mondiale. Rappresentano anche il principale mercato e hanno da subito individuato questa soluzione. La sentenza del giudice Chin va nella stessa direzione.
Prima – Uno dei punti di cui si è discusso a Venezia è che il risvolto di un progetto meritorio come quello di Google di diffondere la conoscenza, o come quello di Amazon di vendere nel suo negozio on line libri che altrimenti non sarebbero reperibili, hanno un secondo fine: Google vuole vendere pubblicità , Amazon vuole acquisire clienti a cui vendere anche altre cose. Ma cosa c’è di male ad avere un secondo fine?
S. Mauri – Aggiungerei Apple che vuole vendere hardware. C’è di male che il secondo fine può prevalere sul primo. Si può essere spinti a svendere i contenuti creativi per guadagnare con il secondo fine. Invece per me il primo fine, cioè il mercato dei contenuti, è sacro. In mancanza di editori, per gli autori l’alternativa qual è: essere pagati dalla pubblicità  o sostenuti da un mecenate? Nel sistema che mi piace e che difendo l’indipendenza è garantita dalla pluralità  degli editori e dalla scelta dei lettori di quali libri comprare. Il caso di Roberto Saviano è emblematico: ormai è del tutto irrilevante da quale editore escano i suoi libri perché è sostenuto dal pubblico. Saviano è Saviano, punto. E questa indipendenza gliela regala questo sistema.
Prima – Parliamo di ebook. C’è molta enfasi su un prodotto che in Italia ha meno dell’1% del mercato librario. Ma tra qualche anno i bambini cresceranno con un concetto di libro non necessariamente legato alla carta e che comprenderà  anche video, audio, giochi. Pensa che la variabile generazionale potrebbe far fare il grande salto alla diffusione dell’ebook? Lei aveva ipotizzato una quota del 20% nel 2020.
S. Mauri – Non mi stupirei se arrivassimo al 15% nel 2015, ma più che altro per una riduzione dei costi dell’hardware. Oggi l’età  media di chi possiede un Kindle è 42 anni. Comunque il primo contatto con la lettura i bambini ce l’hanno con i libri e credo che sarà  così per un bel po’. Del resto se pensiamo alla nostra vita quotidiana, contrariamente a quanto si credeva Internet porta a leggere moltissimo su carta. Alla faccia di chi profetizzava per il 2008 la fine del libro e soprattutto degli editori.
Prima – Questa non me la ricordo. Chi l’ha detto?
S. Mauri – Secondo Bill Gates nel 2008 i libri di carta sarebbero stati quasi estinti perché finalmente non ci sarebbero più stati quei rompiscatole degli editori che passano gran parte del loro tempo a cestinare capolavori. Nello stesso anno, il 2000, ho sentito Jeff Bezos dire che non credeva nell’ebook. Siamo nel 2011 e chiedo: qualcuno li ha visti questi famosi talenti, occultati dagli editori, che si sono finalmente fatti conoscere al mondo grazie alla Rete? Invece in questo decennio abbiamo avuto un libro che è stato portato, scritto a mano, al più tradizionale degli agenti e ha venduto 500 milioni di copie. Si chiama ‘Harry Potter’. Il 7 aprile, a un convegno a Parigi, ho sentito un eccellente intervento di Bob Young, fondatore di Lulu, il più grande sito di self publishing del mondo, che pubblica 10mila novità  al mese. Ha detto: cari editori, ho un enorme rispetto per voi. Mi sono reso conto che i bestseller li trovate davvero voi, fate la differenza, mentre io mi occupo della ‘coda lunga’.
Prima – Eppure Gems ha appena lanciato la seconda edizione del torneo letterario Io scrittore, che si svolge solo via web e per i finalisti prevede la pubblicazione delle opere in ebook e, solo per opere di particolare pregio, anche il libro cartaceo. Perché lo fate?
S. Mauri – Perché stiamo andando verso un nuovo mondo. Nella prima edizione di Io scrittore sono state lette e votate dai partecipanti più di 1.500 storie, e la classifica finale ha portato a 25 opere pubblicate in ebook e a sei in edizione cartacea. Io credo che, siccome l’ebook abbassa la soglia di costo della pubblicazione, ci sarà  un periodo transitorio nel quale il vivaio dei titoli che escono su carta in parte sarà  di opere già  uscite in ebook. Con l’ebook si riverseranno nel mercato librario anche molti improvvisatori, ma l’importante è che in questa enorme prateria si possa continuare a distinguere il lavoro fatto dagli editori. Per un lettore che ha sempre meno tempo è importante scegliere il libro giusto, garantito da un editore di qualità . Mi sembra che ci sia un problema analogo nel giornalismo.
Prima – Facciamo un po’ di conti in tasca all’ebook. Niente costi di carta e stampa, costi inferiori di distribuzione. Tutto il resto, dal lavoro dell’editore ai diritti d’autore, alla promozione, a costi invariati. Come incide sulla determinazione del prezzo, che è sempre inferiore a quello del libro cartaceo?
S. Mauri – Carta, stampa e distribuzione incidono per il 60% sul costo del libro cartaceo. Con l’ebook, alle piattaforme digitali di distribuzione va il 30% e l’Iva è al 20% invece che al 4% perché per l’Unione europea l’ebook è un servizio e non un bene. Risultato: risparmiamo il 60% e abbiamo nuovi costi al 46%. Aggiungo che se gli editori vogliono che ci sia concorrenza tra librerie, come facciamo noi, devono attrezzarsi per avere un repository centrale da cui i negozi pescano per ogni singolo acquisto di ebook. E i costi salgono di un altro 10%. Insomma, alla fine si risparmia il 4%. Per contro il valore dell’ebook percepito dai lettori è inferiore a quello del libro di carta, quindi anche se è una fatica improba dobbiamo tenere il prezzo più basso.
Prima – La faccenda del prezzo dell’ebook è piuttosto complicata. In Francia a inizio marzo gli editori si sono trovati in azienda gli ispettori dell’Antitrust di Bruxelles con l’accusa di aver fatto un cartello per tenere alto il prezzo dei libri digitali. In un’intervista alla Stampa Antoine Gallimard ha dichiarato che l’ispiratore dell’indagine europea è Amazon che “gioca al ribasso perché ha il potere economico per farlo”. E l’anno scorso in America era scoppiato un putiferio proprio per la decisione di Amazon di vendere gli ebook a 9,99 dollari.
S. Mauri – Quando Amazon ha lanciato il Kindle lo vendeva al doppio di quello che gli costava e vendeva gli ebook a 9,99 dollari, cioè quasi sempre sottocosto. Quindi ha abituato il mercato a pagare poco i contenuti e tanto l’hardware. In questo modo si lancia un messaggio sbagliato, come è sbagliato il messaggio che arriva dall’indagine dell’Antitrust europeo. Che forse dovrebbe occuparsi di quel 25-30% che chiedono le piattaforme digitali di distribuzione, non degli editori ai quali per sostenere i costi di tutto il lavoro che fanno rimane il 15-20% del prezzo di copertina di un libro.
Prima – In Italia è in dirittura d’arrivo la nuova legge sul libro proposta da Ricardo Franco Levi, che fissa lo sconto massimo sul prezzo di copertina al 15% e regolamenta le campagne promozionali degli editori stabilendo, tra le altre cose, tetto di sconto, frequenza e durata massima. È una legge nata esplicitamente per incentivare il pluralismo e tutelare le librerie indipendenti, ma che proprio da loro e da alcuni piccoli editori ha ricevuto critiche. La sua opinione qual è?
S. Mauri – Sicuramente le librerie indipendenti, che ogni anno perdono quote di mercato, saranno favorite perché l’acquisto nelle catene diventerà  meno conveniente. Alcune hanno protestato, ma la categoria che le rappresenta è a favore. Del resto questa è una legge che avvicina l’Italia all’Europa continentale, cioè il luogo dove al momento l’editoria esprime maggiore vitalità .
Prima – Il 31 marzo il consiglio di amministrazione di Gems ha approvato il bilancio del 2010, che registra un aumento dei ricavi del 15% e dell’Ebit, cioè il margine operativo netto, del 93% a 10,5 milioni di euro. Cosa ha contribuito a questi risultati che avete definito record?
S. Mauri – Tutte le case editrici hanno chiuso l’anno con risultati positivi, a eccezione di Bollati Boringhieri che pur avendo aumentato il fatturato del 23% sopporta ancora i costi della riorganizzazione. Longanesi ha avuto un incremento di fatturato del 23%, Guanda del 16%, Corbaccio del 45%, Garzanti del 7%. Anche La Coccinella, che abbiamo acquisito nel maggio 2009, è in attivo e ha appena firmato un accordo con la casa editrice cinese Jilin Fine Arts Press per pubblicare, a marchio congiunto, i suoi libri cartonati per bambini e anche una nuova serie di prodotti su licenza Warner Bros., di cui il gruppo Jilin ha i diritti per la Cina.
Prima – Una delle case editrici di Gems, la Vallardi, pubblica i libri di Benedetta Parodi, ‘Cotto e mangiato’ e ‘Benvenuti nella mia cucina’, che con due milioni di copie vendute sono stati il caso editoriale dell’anno scorso. Guardando a tutta la vostra produzione, cos’altro considera particolarmente significativo?
S. Mauri – Abbiamo pubblicato più di mille titoli, con molti autori esordienti e di successo sia nella narrativa sia nella saggistica. Farei un torto a sceglierne pochi. Ma l’opera più emozionante da pubblicare come editore è stata senz’altro ‘Il libro rosso’ di Jung, rimasto inedito per sua volontà  per ottant’anni e uscito a novembre da Bollati Boringhieri. Ci sono voluti dieci anni di lavoro da parte del curatore, Sonu Shamdasani, per pubblicarlo, dopo l’autorizzazione degli eredi di Jung, in prima edizione in Inghilterra nel 2009. È un tomo di 400 pagine, alto 40 centimetri e largo 29, con decine di illustrazioni in cui Jung sperimentò quella che poi avrebbe definito immaginazione attiva, costa 150 euro e ne abbiamo già  vendute 6mila copie. La considero una magnifica storia editoriale, emblematica dell’aspetto artigianale di questo mestiere e di un lavoro culturale che, anche in un momento rivoluzionario come questo, non conosce confini di tempo.

Intervista di Dina Bara