Se non è condivisa la notizia muore
Oggi sul web il valore di un contenuto da solo è molto basso, ciò che gli dà anima è il dialogo che si sviluppa intorno a esso con la partecipazione dei lettori, sostiene Peter Brantley, una delle voci più autorevoli nel dibattito internazionale sul futuro dell’editoria e la trasformazione dei media.
Esperto di information technology, Brantley si è occupato dei progetti di sviluppo digitale delle biblioteche universitarie di Berkeley e della New York University; attualmente lavora per l’Internet archive foundation dove dirige il Book server project, iniziativa che si propone di sviluppare un’architettura aperta per la diffusione dei contenuti digitali su Internet, preservando così il sapere (libri, musica, film) attraverso le nuove tecnologie. Cofondatore della Open book alliance, associazione di editori, autori, biblioteche e produttori di tecnologie che promuove la digitalizzazione del sapere, è membro del board dell’International digital publishing forum, l’ente che si occupa di sviluppare gli standard dell’editoria digitale, e contribuisce regolarmente al blog e alle conferenze promosse da O’Reilly, una delle più note società di consulenza e ricerca nel settore dell’editoria.
L’abbiamo intervistato a Milano prima dell’incontro pubblico sul futuro della scrittura organizzato da Meet the media guru – ciclo di conferenze ormai alla sesta edizione sui cambiamenti nel mondo della comunicazione – per parlare dell’editoria e dell’informazione nell’epoca del digitale.
“I siti d’informazione”, afferma Brantley, “devono diventare piattaforme non solo per diffondere i contenuti prodotti dalle redazioni ma per raccogliere le notizie che si producono all’esterno, rimandando con link ad altri siti, testimonianze dirette, documenti originali. Questo aggiunge valore a un sito web, che diventa una sorta di guida per comprendere le situazioni attraverso una molteplicità di fonti. Il lettore può così esplorare e andare più in profondità , utilizzando anche le informazioni al di fuori dal sito. Inoltre gli articoli sul web potranno essere più lunghi e dettagliati, con più livelli di lettura”.
Prima – Articoli più lunghi di quelli sui giornali cartacei?
Peter Brantley – Assolutamente sì. Bisogna sfruttare al massimo le potenzialità del digitale che non ha limiti di spazio. L’idea che sul web gli articoli debbano essere brevi, mordi e fuggi, è profondamente sbagliata. Molto spesso i giornalisti sono costretti a condensare le notizie in poco spazio anche se avrebbero molte cose da dire. È frustrante! Immagino i corrispondenti e gli inviati in Nord Africa ora: spesso hanno molte più storie da raccontare di quelle contenute in 5mila battute. Ecco, il web offre loro una nuova opportunità : è uno spazio straordinario per andare nel dettaglio, capire più nel profondo una situazione e i suoi risvolti sociali, politici, economici e religiosi.
Prima – In un contesto globale come Internet, dove si trova di tutto, cosa dà valore a una notizia?
P. Brantley – La sua capacità di essere condivisa, di interessare e coinvolgere un ampio numero di persone. Oggi sul web il valore di un contenuto da solo è molto basso. Ciò che gli dà anima è il dialogo che si sviluppa intorno a esso con la partecipazione dei lettori, i rimandi ad altre fonti di informazione, a situazioni e opinioni collegate (vedi l’articolo di Alessandro Araimo a pag. 123: ndr). Se una notizia non viene condivisa e resta isolata, muore. Se invece si diffonde, propaga la sua energia, diventa più incisiva.
Prima – In questo sistema di libero scambio dei contenuti che fine fa il copyright? Dobbiamo abituarci a vivere senza?
P. Brantley – Il vecchio modello di tutela del diritto d’autore non funziona più. Se devo pagare ogni volta che condivido con qualcuno una notizia allora finisce che non condivido più nulla. Ma così viene meno anche l’obiettivo dei giornali, che è quello di raggiungere il maggior numero possibile di persone. Certo produrre contenuti costa, ma questo non significa che dobbiamo mantenere un sistema di tutela ormai obsoleto. Penso che non andremo incontro all’eliminazione del copyright ma a una sua radicale trasformazione. Siamo in un periodo di transizione. Bisogna trovare nuove forme di sostentamento per continuare a produrre e diffondere contenuti di qualità .
Prima – Mi sembra chiaro che secondo lei la carta stampata scomparirà …
P. Brantley – Sì, è vero, ne sono convinto. Fino al secolo scorso abbiamo avuto bisogno di supporti fisici per tramandare il sapere: libri, giornali, riviste, eccetera. Ma ora abbiamo l’opportunità del digitale: possiamo scambiarci informazioni senza produrre oggetti materiali. I libri e i giornali sono begli oggetti, è vero. Ma possiamo creare strumenti ancora più belli per usufruire dei contenuti digitali. La sfida dunque sta nel progettare siti web, e-book, tablet pc più belli e funzionali, sfruttando tutte le opportunità della cultura immateriale. Il passaggio sarà velocissimo. È difficile per la carta stampata reggere il confronto con l’ubiquità e la velocità dell’informazione digitale.
Prima – Quando sarà stampata l’ultima copia dell’ultimo giornale?
P. Brantley – Sarà forse prima di quanto noi stessi promotori del digitale immaginiamo. Nei prossimi dieci, quindici anni avverranno mutamenti radicali. Basti pensare a come stanno cambiando le librerie negli Stati Uniti. Il fatto che Amazon vende 115 libri digitali ogni 100 cartacei è già indicativo. È stato incredibile anche per le aziende del settore vedere quanto in fretta le persone hanno imparato ad apprezzare la lettura digitale.
Prima – Non crede però che il passaggio al digitale potrebbe allontanare dalla lettura molte persone che non hanno confidenza con strumenti tecnologici complessi?
P. Brantley – La lettura su iPad e sui tablet di ultima generazione è in realtà molto più immediata di quanto ci immaginiamo. Se si mette un bambino davanti a uno schermo istintivamente cerca di toccarlo, come avviene nei sistemi touch screen, non capisce a cosa serve il mouse. Questa rivoluzione avverrà più velocemente se chi progetta i supporti tecnologici saprà renderli accessibili e chi produce cultura e informazione saprà sfruttarli al meglio. Il fatto di poter toccare lo schermo è qualcosa di rivoluzionario, cambia il modo di scrivere e di leggere. Ne deve tener conto chi crea un articolo o un libro. L’altra rivoluzione è la mobilità : ovunque tu sei puoi inviare e ricevere informazioni in tempo reale. È qualcosa di cui non si può più fare a meno.
Prima – Secondo lei l’iniziativa del Daily di Rupert Murdoch, un giornale studiato appositamente per l’iPad, avrà successo?
P. Brantley – È un prodotto molto attraente, perché è ben progettato e ben scritto. E l’iPad è un sistema molto intelligente. È possibile che il Daily conquisti i lettori e Murdoch ha fatto bene a investire nella progettazione di un nuovo tipo di quotidiano. Tuttavia non è detto che sia l’unica formula possibile, anzi. L’editoria è in grandissima trasformazione. Bisogna aprire la propria immaginazione. La sfida del futuro è continuare a progettare strumenti sempre migliori per la trasmissione del sapere. Si vedrà poi chi avrà la meglio.
Prima – Ha avuto occasione di guardare i siti web dei quotidiani italiani? Cosa ne pensa?
P. Brantley – Sì, ho guardato i siti italiani per prepararmi a questa conferenza e per informarmi sui recenti fatti politici che vi riguardano. Anche negli Stati Uniti non è da molto che i principali quotidiani hanno capito che il web è un media differente rispetto alla carta stampata, e che un giornale on line non deve essere la copia dell’edizione cartacea. Ci possono essere le stesse storie ma devono essere concepite in modo radicalmente diverso. Ecco, da quello che ho visto dei giornali italiani sul web questo non avviene ancora abbastanza, le potenzialità non sono realmente sfruttate. C’è la tendenza a mettere on line solo una parte del quotidiano quando invece dovrebbe essere il contrario: più contenuti in digitale che cartacei.
Prima – Pensa che i siti web dei giornali debbano rimanere gratuiti?
P. Brantley – La risposta breve è ‘non lo so’. La risposta lunga è che probabilmente solo poche testate sul web possono permettersi di diventare a pagamento. Solo le testate più forti e autorevoli come il New York Times, il Wall Street Journal, forse il Los Angeles Times potrebbero essere a pagamento, grazie alla loro presenza nazionale e internazionale e all’originalità delle loro notizie.
Prima – E per quanto riguarda le nuove testate nate per il web?
P. Brantley – Secondo me possono giocare un ruolo decisivo. Le vecchie redazioni non sono fatte per l’informazione digitale. È possibile produrre contenuti di qualità senza dover metter in piedi una struttura come quella delle redazioni tradizionali, con costi di produzione e diffusione molto inferiori rispetto alle copie cartacee. Negli Stati Uniti ci sono siti molto specifici, ad esempio di politica e di cronaca giudiziaria, con un grande seguito. E siti di opinione e analisi con articoli molto più lunghi e dettagliati di quelli dei giornali cartacei. Anche per loro però diventare a pagamento è un rischio. Sicuramente non è possibile fin dall’inizio.
Prima – Bisogna confidare insomma solo sulla pubblicità per incrementare i ricavi?
P. Brantley – È possibile creare un sistema efficiente per raccogliere soldi sia dalla pubblicità sia da fonti nuove. Uno degli errori degli editori è cercare di preservare il più possibile le entrate tradizionali. Invece dovrebbero reinventarsi come organizzazione. Studiare nuove formule, più flessibili e veloci, sul modo di produrre le notizie e su dove pubblicarle. Inoltre, se i giornali riescono a stringere legami più solidi con i lettori del web, possono sviluppare contenuti specifici, ad alto valore aggiunto, polarizzando intorno a essi comunità di appassionati. Il valore delle interazioni con questi lettori diventa maggiore. E anche il prezzo della pubblicità può aumentare se raggiunge in maniera efficace un determinato pubblico. È sbagliato pensare che sul web si possa replicare il modello di business della carta stampata.
Prima – È pensabile che i lettori diventino finanziatori diretti dei giornali? In Italia si è parlato molto dell’esperienza del sito statunitense Spot.us, che chiede direttamente al suo pubblico di sponsorizzare singole inchieste e servizi giornalistici.
P. Brantley – Sì, Spot.us è un caso interessante. Ma ci sono situazioni meno al limite. Ad esempio collaborazioni con istituzioni culturali che promuovono eventi specifici. Di fatto bisogna pensare a nuove forme di pubblicità intelligente, che si rivolga a un pubblico di persone interessate. Oppure, come dicevo prima, a nuove forme di organizzazione della redazione. Un bell’esempio in questo senso è Storify.com, una società appena nata che ha inventato un sistema per raccontare storie utilizzando come fonti i social media. Questo aiuta i giornalisti nel loro lavoro di raccolta e organizzazione delle fonti e permette di mettere in Rete più velocemente testimonianze dirette di un determinato evento.
Prima – Cosa pensa del citizen journalism? Quando le prime tecnologie digitali sono apparse e tutti hanno potuto inviare informazioni e filmati si è pensato che la figura del giornalista fosse in declino. Ora, dopo qualche anno, li vediamo ancora lì, in redazione. Forse la previsione era sbagliata…
P. Brantley – Il fatto che tutti possono diffondere notizie documentate ha cambiato moltissimo l’informazione, io credo in modo positivo, aiutando anche le redazioni tradizionali, che non possono essere sempre dappertutto. Comunque più il flusso di informazione è ampio più è cruciale il lavoro del giornalista professionista. Il suo ruolo è comprendere, interpretare, organizzare questo flusso di notizie in modo che raggiunga in maniera efficace un largo numero di persone. Il giornalista deve saper raccogliere e raccontare storie, e lavorare insieme ai ‘cittadini giornalisti’ sparsi per il mondo. Wikipedia è un esempio di come può funzionare bene un sistema diffuso di produzione del sapere. È uno degli esempi migliori di come la comprensione e la riorganizzazione delle fonti esterne alla redazione sia l’elemento chiave per produrre informazione.
Intervista di Eleonora De Bernardi