Non c’è squadra di destra – Intervista a Mario Sechi, direttore del Tempo (Prima n. 420, settembre 2011)

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Non c’è squadra di destra
“Se un giro chiuso esiste è perché si rivela l’unico possibile”, dice Mario Sechi, direttore del Tempo, che non vuole essere accomunato a Feltri, Belpietro, Ferrara, Sallusti e compagnia cantante. “Loro sono bravissimi facitori di quotidiani militanti, ma non è questa l’unica formula possibile. Loro hanno attraversato l’epoca del berlusconismo ma non si sono posti il vero problema: come uscirne”
Se lo mischi ai ‘berluscones’ ti guarda torvo e ringhia: “Io sono un giornalista liberale e libero. Non appartengo a nessuna casta e ho dato più ceffoni io al premier che non qualche giornale di cosiddetta sinistra”. Vero? Eh sì. Almeno a giudicare da come la manovra economica si è dipanata sulle prime pagine del Tempo.
Lunedì 5 settembre, editoriale del direttore: “Se penso che abbiamo un Parlamento dove i soldati di destra e di sinistra sono abituati più a stare in cucina che in trincea, mi vengono i brividi”.
Domenica 21 agosto, titolone: ‘La manovra spaccatutto’.
Lunedì 15 agosto, conclusione dell’editoriale titolato ‘Quel patto non rispettato’: “È questo il mondo reale dell’economia, di chi paga le tasse, fa il suo dovere e si vede offeso e umiliato da una politica incapace di mantenere i patti”.
Che cosa è successo, dunque, al giornale più conservatore non solo della capitale, storica voce della destra (e pensare che nacque nel 1944 con la sottotestata ‘quotidiano socialdemocratico’), in sintonia fino a poco tempo fa con il presidente del Consiglio?
È successo che a dirigerlo Domenico Bonifaci ha chiamato un uomo di destra, Mario Sechi, ma come alcuni suoi illustri corregionali un progressista di destra o un liberale di destra alla Montanelli oppure, come egli ama definirsi, un ‘revolutionary conservatory’.
Questo Bonifaci, costruttore abruzzese ex muratore trapiantato a Roma negli anni Cinquanta, lo sapeva? Penso di sì. L’editore aveva in animo da anni di strappare quel velo nerastro dalla testata del quotidiano di piazza Colonna.
Lo so perché all’alba del 2000 mi propose la direzione del giornale. Gli manifestai la mia sorpresa: “Lei conosce la mia storia? Vengo da 20 anni di Repubblica, i miei educatori sono stati Cartesio, Croce, Gobetti, Scalfari…”. M’interruppe per chiarire: “Proprio per questo vorrei che lei dirigesse Il Tempo, per dare un segnale preciso e definitivo, per sgomberare ogni dubbio e diceria: non siamo, o non siamo più, un giornale fascista”. Poi non se ne fece nulla per altri motivi, ma così andarono le cose. Da allora la stanza direzionale del quotidiano sembrò un grand hotel: Sanzotta, Allione, Bechis, Pedullà , ancora Sanzotta, Arditti. Gente che va, gente che viene. Con il bravissimo Sanzotta nel ruolo di Gattuso a tamponare con dedizione e grande professionalità  ogni falla. Fino a Sechi, febbraio del 2010. Il colpo da maestro, pare, visto il prestigio riacquistato dal giornale, la sua presenza nelle istituzioni, la partecipazione del suo direttore ai talk show televisivi più accreditati.
Insomma, per le mie conversazioni con il giornalista del mese ero andato dritto – dopo tanti ‘progressisti’ – su un portabandiera dei conservatori, fregandomi le mani e pregustando un confronto anche a muso duro; mi ritrovo invece davanti a un ‘revolutionary conservatory’.
Sì, prima però… Già , prima – mi fanno notare alcuni colleghi giornalisti – anche Sechi seguiva l’onda berlusconiana. Cautamente ma la seguiva. Poi, vista la discesa in picchiata del Cavaliere… Può darsi che dietro l’atteggiamento critico del giornale ci sia anche questo aspetto, come dire, commerciale, ma è stato interessante scoprire – durante le quasi tre ore di conversazione con qualche successiva appendice – in quale misura. Io vi racconto il dialogo in maniera necessariamente condensata ma assolutamente fedele, lasciando al lettore le conclusioni.
Prima, però, sarà  utile inquadrare il personaggio, le sue origini, la sua (faticosa) arrampicata alla professione, altrimenti tante sue azioni e convinzioni non risulterebbero chiare. Cominciando a dire che Mario Sechi è isolano e sardo (cioè l’essenza degli isolani quanto a testardaggine, volontà , voglia di riscatto) di Cabras, paesone di 9mila anime a nove chilometri da Oristano, noto per i fenicotteri, la bottarga e la ‘processione degli scalzi’, uomini e donne senza scarpe che portano in salvo la statua di San Salvatore. Mario Sechi è il primo dei quattro figli di Cesare (oggi 71 anni), elettrotecnico, e Peppica Marongiu (69), casalinga. Mario avrà  in seguito due fratelli e una sorella, la più piccola, Sara, 33 anni, laureata alla Bocconi. “Un genio”, sottolinea Mario. Se è vero, lo è diventata anche per merito suo perché a mantenerla agli studi ci ha pensato lui. Fortuna che lo studio e la fatica gli sono sempre scivolati sulle spalle senza affanni. Era uno studente brillante, tutti 8 salvo il ricorrente 7 in condotta, perché non era un secchione, anzi bigiava spesso la scuola, istituto tecnico Lorenzo Mossa. Preferiva gli allenamenti con il San Marco Cabras, squadra di serie D, dove giocava come difensore: terzino o stopper. Finché una sera mamma Peppica lo prese da parte e gli disse con tono grave: “Mario, ora basta con il pallone, qui stiamo tirando la cinghia, finisci gli studi e mettiti a lavorare”. Così fece, iscrivendosi alla facoltà  di scienze politiche all’università  di Cagliari e allo stesso tempo impiegandosi come ragioniere nella Attilio Contini spa, ditta di vini pregiati, a un milione al mese.
Mario ebbe la fortuna di crescere in una casa piena di giornali e di libri. Suo padre comprava ogni giorno L’Unione Sarda e Corriere della Sera e ogni settimana L’Espresso e Panorama. Lui prima sbirciava, con gli anni affondava nella lettura. A 15 anni scrisse dei racconti (“non li pubblicherò mai, resteranno un mio segreto”), una serie mutuata da Edgar Allan Poe, una paginetta l’uno, col gusto del brivido e del paradosso finale.
Nell’estate del 1987 la vita di Mario Sechi prese un indirizzo preciso. A 19 anni, appena conseguita la maturità , fu folgorato dalla lettura di due libri: ‘L’arte del romanzo’, saggi filosofici di Milan Kundera, e ‘Carte false’ di Giampaolo Pansa. “Narrazione pura il primo, cronaca il secondo. Sogno e realtà “. Mario decise cosa fare nella vita: “Voglio scrivere”.
Mentre raccoglieva per la concessionaria Manzoni la pubblicità  per La Nuova Sardegna, rispose a un annuncio per una selezione alla scuola di giornalismo della Luiss. Superò l’esame, si stabilì a Roma, studiava e alzandosi alle 5 del mattino curava la rassegna stampa per Edindustria, gruppo Iri. Divideva un appartamento sulla Tiburtina con altri cinque ragazzi e una stanza con un dipendente della Standa che gestiva il banco dei formaggi. Poi…
“Alla Luiss c’era un docente pazzo, Roberto Martinelli, celebre giornalista di giudiziaria dell’Indipendente che su mia richiesta mi aveva fatto scrivere qualche pezzetto di cultura. Il primo riguardava il crollo delle quotazioni dei quadri di Andy Warhol.
Scrivere in cultura è come sedere in panchina durante una partita di calcio. Un giorno Martinelli mi fa: ‘Domani non venire a lezione, vai alla settima sezione del Tribunale, vedi se c’è qualcosa di interessante’. Ricordo che appena entrato mi trovai il giudice Carnevale alle spalle. E scoprii che Curcio, il brigatista, stava per uscire dal carcere. Vado dalla signora Lombardi, il suo avvocato, e mi faccio raccontare ogni particolare. Il direttore Ricardo Franco Levi mise l’articolo in prima pagina. Poi arrivò Vittorio Feltri. Scrissi per la cronaca e la giudiziaria, mi occupai persino di Mani pulite. Finito il corso alla Luiss, chiesi a Martinelli: mi fai fare uno stage all’Espresso? Mi rispose: ‘Posso anche provare, ma io ti consiglio di rimanere con Feltri. Quello è matto, hai visto mai…’. E infatti. Nell’estate del 1992 Giuseppe Mazzei, uno dei ragazzi con cui dividevo l’appartamento, ora giornalista all’Arena di Verona, mi chiama: ‘C’è Feltri al telefono per te’. Pensavo mi prendesse in giro, invece era proprio lui: ‘Cosa fai lì, perché non vieni a lavorare a Milano!’. Posai la cornetta e corsi a fare la valigia”.
Franco Recanatesi – Eccoti alla redazione di via Valcava, abusivo di prima fascia. Maurizio Belpietro, giovane caporedattore centrale, ti affida subito servizi importanti: il suicidio di Sergio Moroni, alcuni rivoli del processo di Mani pulite. Vieni impiegato anche al desk.
Mario Sechi – Sono io a propormi, voglio conoscere ogni piega del mestiere. L’Indipendente è un giornale vivace, spregiudicato, indipendente davvero. Al mandato d’arresto per Craxi titolammo: ‘Hanno preso il Cinghialone’. La redazione era una spremuta di anarchia. Accanto ai pezzi di Feltri c’erano quelli di Alessandro Curzi e Massimo Teodori. Una follia bene organizzata. Una grande scuola.
F. Recanatesi – Ricordi il momento in cui ti fu proposta l’assunzione?
M. Sechi – Come se fosse adesso. Settembre del 1992. Ero in bagno, Feltri stava facendo la pipì accanto a me. Mi disse: “Mario, che ne dici se ti assumo?”. Non ebbi nulla da obiettare. In quegli anni conobbi Berlusconi. O meglio: scrissi della preparazione della sua discesa in campo. Capitai nella sede della Diakron dove il gruppo di Publitalia faceva selezioni, sondaggi, marketing all’americana. C’era Gianni Pilo, un giovane Mario Valducci, tanti giovani yuppies. Ho assistito agli albori di una storia ventennale.
F. Recanatesi – Nel 1993 porti all’altare Stefania Ibba, anch’essa di Cabras, insegnante, fidanzatina dall’età  di 16 anni. Avrete due figli: Jana Franziska, che oggi ha 7 anni, e Jaime Alessandro di 4. Nomi singolari. Nomi di antichi dominatori spagnoli. Franziska mi suonava strano, sono andato a informarmi su Wikipedia: è il quarto o quinto nome di Maria Adelaide d’Asburgo, moglie di Vittorio Emanuele II di Savoia a metà  del 1800 e come tale regina di Sardegna.
M. Sechi – Ho voluto dare ai miei figli la consapevolezza delle loro radici, importantissima nella vita di ciascuno di noi.
F. Recanatesi – Nella vita hai sposato Stefania, nella professione Feltri. Quando Vittorio ha lasciato L’Indipendente, all’inizio del 1994, per sostituire Montanelli alla guida del Giornale, e Pia Luisa Bianco prese il suo posto, tu te la squagliasti non certo all’inglese.
M. Sechi – Il salto fu troppo brusco. Presentai le dimissioni al buio, senza un altro impiego, senza la garanzia di uno stipendio. Ma per poco. Trovai un messaggio di Feltri e Belpietro nella segreteria telefonica: “Vieni qui che c’è da lavorare”.
F. Recanatesi – Ancora Feltri, ancora Belpietro.
M. Sechi – Vado con chi mi chiama e con chi penso possa condividere un progetto interessante. Nel 1998, per esempio, risposi a Niki Grauso che mi offriva la direzione dell’Unione Sarda. Rimasi a Cagliari per tre anni. Non feci benissimo. Forse ero un po’ acerbo, troppo giovane. Tirai un sospiro di sollievo quando Belpietro mi richiamò al Giornale come caporedattore a Roma. Trovai la redazione più di sinistra che abbia mai guidato. Nella stanza di Telese, Scafi e Scafuri campeggiava un poster di Che Guevara.
F. Recanatesi – Nel giornale della famiglia Berlusconi?
M. Sechi – Nessuno era un ‘berluscones’. Caprettini era un uomo di destra liberale, la Cesaretti radicale, Pennacchi veniva dalla sinistra extraparlamentare. La verità  è che per fare un buon giornale di destra servono giornalisti di sinistra e viceversa. Giornalisti, cioè, senza sovrastrutture. È facile fare un giornale di opposizione, molto più difficile fare un giornale governativo. Con Belpietro, che ha sempre guardato soprattutto alle vendite, inventammo il giornale di opposizione all’opposizione.
F. Recanatesi – Spiegati meglio.
M. Sechi – Governava Berlusconi, ma noi continuavamo a parlare della sinistra. Cofferati, ‘il Cinese’, fu una nostra invenzione. Roberto Cuillo, portavoce di Fassino, ci telefonava in ginocchio: “Basta parlare di Cofferati!”. Se volevi sapere come andavano le cose nella sinistra dovevi leggere Il Giornale.
F. Recanatesi – Beh, sotto una certa lente. C’era anche La Repubblica, c’erano il Corriere della Sera e altri giornali bene informati.
M. Sechi – Il Giornale non aveva sovrastrutture. E non indugiava sui retroscena, una delle rovine dei nostri giornali. Al 70% i retroscena sono pure invenzioni. L’unico che conosceva retroscena ghiotti e autentici era Augusto Minzolini.
F. Recanatesi – Questo mi pare azzardato. Adesso mi sembri più ‘conservatory’ che ‘revolutionary’.
M. Sechi – Prendiamo Berlusconi. Ingovernabile – non me ne voglia il buon Bonaiuti – dal punto di vista della comunicazione. Io ci misi su Renato Pera che lo seguì in maniera british: riferendo ogni mossa, ogni parola, senza interpretazioni, senza dietrologie.
F. Recanatesi – Sei stato vice direttore del Giornale, poi di Panorama, poi di Libero sempre con Belpietro e Feltri (e dai…), fino alla direzione del Tempo. Non mi dire che in questi ruoli di comando non hai avuto delle pressioni da parte dei potenti della destra. Berlusconi o chi per lui.
M. Sechi – Mi è capitato una volta, una sola, da parte di un importante membro della galassia berlusconiana di cui non rivelerò il nome neanche sotto tortura. Lo mandai letteralmente affanculo, come raccomanda Pansa nei suoi libri. La persona ingoiò l’insulto, si scusò e da allora manteniamo ottimi rapporti.
F. Recanatesi – E con Berlusconi che rapporti hai?
M. Sechi – Per me è una fonte di notizie come tanti altri. Non mi sono mai seduto a tavola con lui. Meglio evitare. Come tutti gli uomini potenti tende a diventare dispotico. Berlusconi racconta delle cose, tante cose, bisogna capire quali sono importanti giornalisticamente e quali no. Il segreto è stimolarlo a parlare evitando l’ufficialità  dell’intervista. Poche settimane fa mi chiama al telefono: “Voglio dirle come sono entrate le pensioni nella manovra economica”. L’ho tenuto al telefono venti minuti e alla fine gli ho detto: “Le comunico che scriverò tutto”. “Va bene”, mi ha risposto tranquillo. E abbiamo fatto un discreto scoopino.
F. Recanatesi – Dammi un giudizio spassionato su Berlusconi.
M. Sechi – Non è un santo, ma in quelle condizioni storiche era l’espressione logica dell’Italia. La sinistra non capisce che il berlusconismo non è nato con Berlusconi, ma assai prima: la Dc e il Psi che cos’erano? La stessa roba. Di buono ci ha risparmiato la farsa di vedere i post comunisti al governo mentre sparivano dalla scena europea, ha introdotto il patto con gli elettori poi ripreso da Prodi. Lo so, non lo ha rispettato, ma neanche Prodi e comunque l’idea era felice. Aspetti negativi: ha solo sfiorato i centri di potere, ha inconsapevolmente governato con la sinistra, si è circondato – salvo Letta – di persone inadeguate, ha bloccato la crescita delle nuove generazioni, ha fossilizzato l’establishment del Paese.
F. Recanatesi – Non mi verrai a dire che è stato (uso già  il passato?) un grande riformatore.
M. Sechi – Non lo è stato. Anche perché il Paese non vuole essere riformato. Prendiamo la manovra: insorgono le caste, le lobby, i ricchi e i poveri. E come ne vieni fuori?
F. Recanatesi – Scusa, ma adesso mi sembra di sentir parlare Feltri, Belpietro, Ferrara, Sallusti e compagnia cantante.
M. Sechi – Non mi sento assolutamente parte di un concerto. Io ho 43 anni e loro no. Io ho una formazione condita con esperienze all’estero (dall’Executive Program della Singularity University in California alle conferenze sulle sfide del XXI secolo a Washington) e loro no. Loro sono bravissimi facitori di quotidiani militanti (di area intendo), ma non è questa l’unica formula possibile. Loro hanno attraversato l’epoca del berlusconismo ma non si sono posti il vero problema: come uscirne (converrebbe che anche Repubblica lo facesse). No, non esiste una squadra di giornalisti di destra. Anzi, c’è competizione. Se un giro chiuso esiste è perché si rivela l’unico possibile. Io farei anche il Corriere della Sera, rinnovandolo ma lo farei. Se mi dai L’Unità  sono certo che riuscirei a tirar fuori un bellissimo giornale. Anche La Repubblica mi piacerebbe dirigere. È il giornalista che fa il giornale, con le proprie idee e rispettando la storia della testata.
F. Recanatesi – Perché i talk show politici condotti da giornalisti di destra non funzionano mai, con l’eccezione dell’immarcescibile Vespa?
M. Sechi – Perché non esiste un pubblico di sinistra o di destra, ma semplicemente il pubblico televisivo. I cittadini che votano Berlusconi guardavano Santoro per avere conferma delle proprie convinzioni. Così pure quelli di sinistra. E se proprio vogliamo individuare un pubblico moderato, allora ‘Porta a porta’ è il prodotto televisivo perfetto per quel target.
F. Recanatesi – Chi sono a parer tuo i grandi del giornalismo moderno?
M. Sechi – Eugenio Scalfari ha inventato un giornale che oggi nessuno può ignorare. Sì, gli riconosco di essere un gigante: il più acuto, un maestro. Incontrandolo alla presentazione del nuovo Espresso gli ho confidato di sentirmi un suo figlio. Mi ha risposto sorridendo: “Però riuscito un po’ male”. Gli rimprovero solo una visione manichea del male assoluto. Dopo Scalfari, Montanelli, per la secchezza del linguaggio e le analisi di una semplicità  disarmante. Fortebraccio e Longanesi li metto da parte come due mie icone. Ezio Mauro, instancabile, sempre arrapato sulla notizia. Feltri: ha fondato il suo giornale, poi lo ha lasciato, sbagliando, Libero è il feltrismo. Belpietro, eccezionale costruttore di inchieste, anche se ora meno, ciascuno ha le sue stagioni. Il Paolo Mieli della prima direzione del Corriere, quella che spinse Agnelli a lamentarsi: “Lei vuol mettere la minigonna a un’anziana signora”. Ferruccio de Bortoli, anch’egli della prima direzione del Corriere e dello splendido Sole 24 Ore che non so perché ha lasciato. Giuliano Ferrara, che ha reso Il Foglio insostituibile, può farti incazzare ma devi leggerlo.
F. Recanatesi – Non possiamo concludere questa conversazione senza toccare due temi futuribili: il plauso alla discesa in campo politico di Luca di Montezemolo e la candidatura alla direzione del Tg2.
M. Sechi – Come Berlusconi nel 1994, il diritto di Montezemolo a far politica va assecondato. Questo vale anche per Profumo. Se la ricetta di Montezemolo è una ricetta liberale, io da liberale dico: vediamola. Quanto al Tg2, la televisione è uno straordinario mezzo di comunicazione. Dire che non mi interessa sarebbe ipocrita. Mi piacerebbe un giorno potermi confrontare con la macchina narrativa del piccolo schermo, provare a innovarne il linguaggio, mixare la tecnologia con l’antica arte del racconto e la fulmineità  della notizia. Insomma, fare quel che cerco di realizzare qui al Tempo: del buon giornalismo. Sono tempi maturi per questa avventura? Non lo so, ora sono impegnato a continuare a migliorare il quotidiano che dirigo (all’inizio di ottobre usciamo con un elegante refresh della grafica e altri contenuti). In questo mondo non tutto è programmabile e le cose spesso accadono per caso. Ho 43 anni, non sono più un ragazzo e nemmeno matusalemme. Il futuro può venir subito. O aspettare.

Intervista di Franco Recanatesi