Le mie speciali case – Intervista a Ettore Mocchetti, direttore di Ad (Prima n. 421, ottobre 2011)

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Le mie speciali case
Seduto alla sua scrivania, in una luminosa stanza zeppa di oggetti di design, libri, quadri, Ettore Mocchetti guarda una pila di carte alla sua sinistra e sospira. “Le vede quelle? Sono solo le ultime proposte di case da fotografare che abbiamo ricevuto”. Per il direttore di Ad, anzi per lo ‘storico’ direttore di Ad, visto che firma il mensile dal primo numero del maggio 1981, quelle case sono croce e delizia. Ne pubblica una decina e più a numero nella sezione centrale del giornale, da 100 a 120 pagine non interrotte dalla pubblicità , che moltiplicate per trent’anni fanno almeno 3mila 500 case fotografate.
Proporzione fra quante arrivano sulla sua scrivania e quante vengono scelte? “Una a dieci. E prima di decidere chiediamo sempre un test fotografico. Le case sono come le persone: ce ne sono di bellissime però non fotogeniche e ce ne sono di normali che fanno un figurone”. E come le scova? “Abbiamo una rete di ‘amici di Ad’ che suggeriscono e propongono: fotografi, architetti, interior designer, artisti, signore di gusto, o meglio persone di gusto che hanno un occhio speciale, la cultura e la sensibilità  adatte”.
Nel vastissimo panorama delle riviste dedicate alla casa “Ad è l’unica a mostrare ai suoi lettori soltanto case vere e non costruite in studio. Al massimo aggiungiamo un mazzo di fiori”, giura Mocchetti. A inventarla è stato nel 1920 un editore californiano, Bud Knapp, ma la fortuna di Architectural Digest, questo il nome americano, si deve a Paige Rense, che l’ha diretta con mano ferrea dal 1971 al 2010 (quando ha lasciato alla bella età  di 81 anni) intuendo per prima la fascinazione che esercitava il mostrare lo stile di vita dei ricchi e famosi attraverso le loro case, facendone la bibbia dell’interior design, portandola da 50mila a 850mila copie e rendendola una miniera d’oro per ricavi pubblicitari.
Quella italiana è stata la prima edizione estera, pubblicata inizialmente da Giorgio Mondadori e dal 1995 da Condé Nast che aveva acquistato il mensile da Knapp. E l’impostazione originaria è rimasta sacra, con risultati molto soddisfacenti sulle vendite in edicola (da tempo Ad ha una diffusione tra le 110mila e le 120mila copie, 110.585 nell’ultima Ads) e ottimi sulla raccolta pubblicitaria grazie all’apporto di inserzionisti anche dell’extrasettore, favorito dall’impostazione lifestyle del mensile e da un lettorato quasi equamente diviso tra donne e uomini.
“Quando scelgo una casa da fotografare quello che cerco sono gusto ed emozione”, dice Mocchetti. “Chi si fa e si arreda una casa, magari pagando un bravissimo architetto dotato di molto buon gusto, senza però metterci nulla di suo, non fa per me. Né è il mio lettore. Ad è stato il primo, ed è ancora l’unico, a concepire la casa come un’emozione. È questo il segreto”.
A trasmettere l’emozione hanno sempre contribuito con la loro presenza sulle pagine del giornale anche gli abitanti di quelle case: borghesi rampanti e ansiosi di riconoscimento sociale negli anni Ottanta (ma allora più d’uno, racconta Mocchetti, rifiutava di farsi fotografare per timore dei rapimenti); borghesi colti e un po’ snob che non si curano di nascondere il divano d’epoca ormai sdrucito; uomini di cultura e artisti, i maggiori stilisti italiani e stranieri e poi imprenditori e professionisti, fino alle più recenti contaminazioni pop che hanno portato sulle pagine di Ad star internazionali della musica e dello spettacolo e celebrity nostrane come la show girl Belén Rodrà­guez, in copertina sul numero di ottobre fotografata nella sua nuova (e sorprendentemente sobria) casa milanese. Una contaminazione che Ettore Mocchetti rivendica, brandendo come una lancia il concetto di gusto in opposizione a quello di lusso.
Prima – Lei ha sempre detto che Ad ignora le mode e si occupa delle tendenze. Ma oggi che tutto si mischia e che il design è un fenomeno di largo consumo ha ancora senso parlare di tendenze?
Ettore Mocchetti – Si che ce l’ha, anche se in modo diverso da anni fa, quando i trend erano macroscopici: pensi che orizzonti ha aperto il tramonto della moquette, che evoluzione c’è stata nell’uso e nel gusto delle cucine e naturalmente del bagno, tanto che già  anni fa abbiamo inaugurato un supplemento di grande successo, Sale da bagno. Quello che su Ad non è mai cambiato è che per noi è importante capire, e far capire, le tendenze dell’abitare. Con un occhio su tutto il mondo. Recentemente abbiamo fatto un numero centrato sul Messico, perché lì, e in generale in America Latina, c’è un trend interessante soprattutto nell’uso dei colori. Ci sono lettori che ci comprano dal primo numero, e continuano a farlo perché gli mostriamo un mondo che si muove. Io non seguo le mode architettoniche, mostro case accessibili a tutti nel gusto, nell’idea. E penso che in trent’anni un po’ di gusto italiano nell’abitare lo abbiamo trasmesso.
Prima – Non era difficile nel Paese che ha avuto, e ha, i più grandi produttori di design. Lei, che oltretutto è architetto, che rapporto ha con questo mondo a cui giustamente ha dato molto rilievo su Ad?
E. Mocchetti – Un rapporto giornalistico. Deve essere un discorso serio perché è una catena: ci sono le aziende che producono, i designer che creano e i media che ne parlano. Come giornalista – e sottolineo che Ad è una rivista di cultura dell’abitare – devo portare tutto questo all’attenzione di un pubblico vasto e non di specialisti, facendo capire cosa c’è dietro quel pezzo, raccontando la storia del designer. Una cosa che ci contraddistingue è che non parliamo in architettese: scriviamo, credo e spero in buon italiano, in modo chiaro e comprensibile così da far capire come l’architetto o l’arredatore ha fatto la casa, che problemi ha avuto e risolto. Questo porta a una grande fidelizzazione, perché i lettori amano avere questo tipo di indicazioni, ispirarsi anche solo per un dettaglio a una casa che vedono in una fotografia bella ed emozionante.
Prima – Negli ultimi trent’anni le cose sono parecchio cambiate. Prima parlava del Messico, ma oggi sono tanti i Paesi interessanti per il design e la creatività  in questo campo non è certo una nostra esclusiva. Cosa è rimasto dell’italian style?
E. Mocchetti – Guardi, io non voglio mettermi a riraccontare la storia del design italiano, ma che l’Italia, anzi il sistema Italia globalmente, abbia avuto un merito fondamentale è indiscutibile. Il mondo si è globalizzato e da tempo ci sono grandissimi designer non italiani, ma dove vengono a produrre se vogliono farlo in un certo modo e realizzare un’idea precisa? Vengono qui, e vengono soprattutto in Brianza dove ci sono le grandi famiglie dell’arredamento con un formidabile dna votato al design. Un uomo come Pierino Busnelli, che è stato probabilmente il più grande tra i produttori, ha fatto capire che l’Italia poteva fare cose di qualità  e di grande mano intelligente, come era nella tradizione, unendole alla ricerca tecnologica avanzata. Lavorando lui stesso con i designer, inaugurando la simbiosi tra progettista e produttore e, non dimentichiamolo, avendo in azienda tecnici e operai di capacità  eccezionali. Ci sono volute tutte queste componenti per fare l’italian style. Questo è un tasto su cui con Ad ho sempre battuto, perché ritengo che si debbano sempre mostrare le forze produttive dell’Italia. È un obbligo, accidenti! Siamo i più bravi, e lo dico a ragion veduta.
Prima – Però ormai si parla della concorrenza non solo della Cina, ma di tutto il Sudest asiatico, come di un pericolo reale. Lo pensa anche lei?
E. Mocchetti – La Cina per ora ha una massiccia produzione medio bassa, così come l’Indonesia. Ma la qualità  si sta elevando, del resto siamo stati noi a dargli il know how. E poi stanno affacciandosi sul mercato i designer cinesi, gente sveglia, che è andata in altri Paesi a studiare e ha studiato tanto e bene. La Cina andrà  sempre più migliorando, quindi la nostra battaglia va giocata sulla grandissima qualità  che noi diamo e loro no. Perché loro hanno una mano intelligente da copisti, però la nostra creatività  se la sognano.
Prima – Ma su un giornale, anche se come Ad si rivolge a un pubblico accorto, come si fa a mostrare la differenza?
E. Mocchetti – Facendo vedere chi e che lavoro c’è dietro al prodotto. Se metto in pagina due belle sedie, una accanto all’altra, possono sembrare simili. Però una è fatta con i legni giusti, le tecnologie giuste, ergonomicamente precise, e l’altra no. La mia funzione è garantire al lettore che gli segnalo un pezzo di qualità , perché gli racconto come è stata disegnata e poi prodotta quella sedia, e da chi.
Prima – Nei suoi trent’anni di direzione di Ad ha attraversato molte epoche, partendo dai ricchi anni Ottanta, quando la casa era uno status symbol e dominava il piacere dell’ostentazione, per arrivare agli anni di crisi che stiamo vivendo. E in mezzo c’è stato un boom immobiliare che ora si è arrestato, con un riflesso negativo anche sul mercato dell’arredamento. Come ne tiene conto per rispondere alle esigenze, e anche alle necessità , dei suoi lettori nei confronti della casa?
E. Mocchetti – Non c’è dubbio che sta cambiando il modo di vivere. È proprio finita un’epoca, lo vedo anche dalle lettere che riceviamo. La gente non butta più via soldi in cose appariscenti. E mentre prima spessissimo comprava d’impulso, adesso sceglie quello che è più giusto per il suo modo di vivere, guarda al rapporto qualità -prezzo, va negli showroom, tocca con mano, chiede, confronta. Prova ne è che oggi anche aziende importanti propongono dei lotti: 30mila euro per arredare la casa con prodotti di alta qualità . Quindi torno a quello che ho sempre predicato: per fare una bella casa senza spendere cifre immense basta il buon gusto, che è la vera grammatica dell’arredare. E comunque alla fine la molla che spinge il lettore è l’emozione: ogni numero di Ad deve avere qualcosa che dia motivo di fermare la macchina davanti all’edicola, magari mentre piove, e spendere i 5 euro del prezzo di copertina.

Intervista di Dina Bara