Questa Rai non ci piace – Intervista a Lorenzo Sassoli de Bianchi, presidente dell’Upa (Prima n. 425, febbraio 2012)

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Questa Rai non ci piace
Mai era successo che l’Upa, l’organismo associativo che riunisce le più importanti e prestigiose aziende industriali, commerciali e di servizi che investono in pubblicità , fosse entrata a gamba tesa su un editore e tanto meno sulla Rai. Da sempre attenta alle rilevazioni di audience, Ads, Audipress e simili per decidere al meglio dove e come investire, per la prima volta l’Upa ha deciso di intervenire su un problema politico organizzativo di un gruppo editoriale affidando ad AstraRicerche di Enrico Finzi uno studio che tratteggiasse i contorni di una crisi che è sotto gli occhi di tutti.
“Oggi la Rai è indifendibile”, ha esordito Lorenzo Sassoli de Bianchi, che è presidente dell’Upa. Considerando che gli investimenti pubblicitari delle aziende che sono socie dell’Upa valgono un miliardo di euro l’anno, il 50% delle entrate di Viale Mazzini (il resto è canone), è facile capire che la sua non è un’opinione fra le tante. Lorenzo Sassoli, forte del sostegno dello stato maggiore dell’organizzazione, è andato giù pesante durante la presentazione della ricerca di Finzi il 9 febbraio parlando senza mezzi termini di “uno scandalo nazionale per caduta di progettualità , professionalità , qualità  sottovalutate, lottizzazioni di poltrone e poltroncine, ingovernabilità , arretramento culturale”. Per poi continuare: “La Rai è un ginepraio politico e gestionale, le migliori professionalità  sono spesso bloccate, le produzioni sono sempre più esternalizzate pur con ben 13mila dipendenti!”. Non pago, ha insistito che la tivù di Stato “si comporta più da broker che da broadcaster, nel senso che i soldi entrano con canone e pubblicità , escono con gli appalti e in Rai rimangono i debiti. Insomma, una nave incagliata in una foresta di interessi pietrificati, di parte e di partiti”. Quando propone che a una rete vada tolta la pubblicità  (roba da 300 milioni di investimento) e di togliere qualsiasi tetto alle altre reti, a qualcuno viene il sospetto che si voglia fare un piacere a Mediaset, che si ritroverebbe così un mercato più ricco. Lui, senza batter ciglio, replica che “non è detto che quei soldi vadano a finire nelle mani dell’azienda berlusconiana, questo dipenderà  dalle scelte del mercato e quel fiume di denaro potrebbe essere canalizzato sulla stampa, su altre televisioni e soprattutto su Internet”. Il sospetto, però, non è del tutto peregrino. Upa è sempre stata considerata molto vicina agli interessi di Mediaset e di Publitalia. Vero è che da quando Sassoli è diventato presidente le cose sono cambiate e i rapporti con la filiera berlusconiana si sono normalizzati.
La ricerca di Finzi, intitolata ‘Il futuro della Rai’ (disponibile sul sito dell’Upa e su Primaonline.it), sintetizza i risultati di un’indagine su più di duecento opinion leader del mondo della comunicazione (investitori pubblicitari, consulenti di comunicazione, esperti, intellettuali), un quinto dei quali dà  la Rai “per persa”, irriformabile e senza speranza. Un quarto la ritiene “salvabile” ma con grandi difficoltà  ed esito incerto. Più di un terzo ne esalta i punti di forza e le potenzialità  e un sesto ne vede solo l’eccellenza.
I giudizi negativi condivisi sono spietati: mal gestita, asservita alla politica, priva di strategia e ingovernabile. Iperburocratica, dimentica del proprio ruolo pubblico, indifferente alle culture locali e alle diversità  sociali e professionali. Un fantasma rispetto a quel che era in passato. Una reputazione che fa acqua da tutte le parti. Depressa e deprimente. Incapace di innovare. E chi più ne ha, più ne metta.
Anche i critici più severi parlano però dell’azienda di Viale Mazzini come della nostra memoria storica, con un grande patrimonio di competenze e di knowhow, radicata nelle vicende del Paese, riconosciuta e riconoscibile come ‘televisione di Stato’, con giacimenti immensi (si pensi, per esempio, a Rai Teche) ma poco sfruttati.
Ma qual è la Rai che gli intervistati e l’Upa auspicano? Cosa e dove deve cambiare quel carrozzone che un tempo tutti chiamavamo ‘Mamma Rai’? Un principio sul quale l’Upa batte e ribatte è che la Rai deve restare pubblica come garanzia democratica e veicolo di pluralismo. Ma anche tenuta lontana il più possibile dalla politica e dalla lottizzazione.
Come? Una fondazione dovrebbe diventare proprietaria dell’ente pubblico con uno statuto che riflette l’attuale contratto di servizio, con obbligo di pareggio e due livelli decisionali: un consiglio di indirizzo, controllo e garanzia e un Cda deputato alla gestione e guidato da un amministratore delegato, mentre un presidente di entrambi i consigli dovrebbe fungere da raccordo tra essi. Privando di pubblicità  una delle tre reti generaliste, sarebbe però necessario recuperare l’evasione del canone. Il modello industriale dovrebbe essere quello ‘multi-multi’: multicanale, multipiattaforma, multicontenuto, multitarget, che corrisponderebbe a un pluralismo di contenuti, stili e target passando dall’offerta rigida al consumo personale e su misura secondo il mantra: “Quel che voglio, dove voglio, quando voglio”.
Prima – Lei sostiene che la Rai è uno scandalo nazionale. E dice anche che la Rai dovrebbe smetterla di esternalizzare i suoi lavori. Ma non è quello che fanno tutte le televisioni del mondo? Riducono le strutture interne e fanno lavorare società  di produzione, molto più flessibili e creative.
Lorenzo Sassoli – La Rai ha 13mila dipendenti ed è un grande produttore. Io semmai la vedrei come esportatore e non come importatore di produzioni. Al suo interno vi sono professionalità  totalmente inespresse. Penso, tanto per fare un esempio, a Carlo Freccero che su Rai 4 sta facendo le nozze con i fichi secchi e portando numeri significativi. La Rai è diventata più un broker che un broadcaster: compra e rivende e poi le restano i debiti perché le sue potenzialità  non vengono sfruttate come dovrebbero.
Prima – Solo per puntualizzare: i dipendenti sono poco più di 11mila e 1.600 a tempo determinato. Ma sono pur sempre un esercito. Il costo del lavoro è una delle voci più importanti del bilancio della Rai; nel 2010 il costo del personale Rai è stato di un miliardo e 15 milioni.
L. Sassoli – Se il costo del lavoro non diventa produttivo, non si giustifica. Mediaset fa lo stesso fatturato e le stesse audience con la metà  del personale.
Prima – Ma anche loro soffrono. E tagliano.
L. Sassoli – Questo perché la crisi della pubblicità  riguarda anche loro. Ma la Rai ha il problema di essersi ingrassata in modo elefantiaco e di sottoutilizzare i propri dipendenti. Per non dire che manca di un progetto e di una strategia leggibili.
Prima – E allora, secondo voi, cosa si deve inventare?
L. Sassoli – Il punto è che non c’è niente da inventare. Gli obiettivi della Rai sono già  stati scritti, e scritti benissimo dal Contratto di servizio. Peccato che non vengano applicati. Lo statuto della fondazione dovrebbe recepire il Contratto di servizio e poi dovrebbe avere il compito di farlo rispettare attraverso un Cda separato da un consiglio di indirizzo composto da realtà  articolate rappresentanti l’intero interesse nazionale.
Prima – A parte il suo impegno personale e civile, il resto dell’Upa la segue su questa strada?
L. Sassoli – Non avrei mai preso una posizione di questo tipo se non fosse stata affrontata con metodo e condivisa. Mai mi sarei permesso di presentare un’iniziativa personale e non una convinzione forte di noi tutti. Ne abbiamo discusso per mesi e mesi. Una cosa del genere l’Upa non l’ha mai fatta, ma questo momento storico particolare ci ha convinto a segnalare delle raccomandazioni, visto che non è compito nostro fare leggi.
Prima – Dato che siete voi a tenere in mano il portafoglio, diciamo che le vostre raccomandazioni hanno un certo peso.
L. Sassoli – Siamo consapevoli di avere una certa forza contrattuale.
Prima – Da parte della Rai e della Sipra non c’è stato un qualche segno di interesse a discutere con voi?
L. Sassoli – Nessun segnale da parte dei vertici delle due aziende. Invece si sono fatti vivi manager di varie strutture per avere la ricerca.
Prima – E anche i rappresentanti dei sindacati dei giornalisti. Ora toccherebbe alla politica intervenire.
L. Sassoli – Abbiamo scritto una lettera al capo del governo segnalando il nostro lavoro e le nostre proposte e dichiarandoci disponibili ad andare a presentargliele direttamente. Non sono per nulla ottimista sul fatto che la nostra proposta sia presa in considerazione. Ciò non toglie che, se sei convinto di una cosa, devi combattere la battaglia che ritieni giusta. Oggi abbiamo un governo laico e indipendente che potrebbe prendere decisioni vere. Ma se non si risolve il problema alla radice, non se ne esce. E stare fermi al giorno d’oggi significa andare indietro con effetti che potrebbero essere devastanti. Basti pensare a quel che è successo all’Alitalia.
Prima – Cioè?
L. Sassoli – L’Alitalia non ha voluto riformare se stessa e così la parte buona è stata venduta e l’altra, la cosiddetta bad company, è toccata allo Stato che poi l’ha liquidata. Non vorrei che prima o poi succeda la stessa cosa alla Rai.
Prima – Insomma, mi pare di capire che lei dice che o la Rai cambia o la Rai muore.
L. Sassoli – Un miglioramento della proposta qualitativa della Rai diventerebbe uno stimolo e un esempio per tutto il sistema della comunicazione. Io penso che gli italiani siano molto meglio di quel che pensiamo e che apprezzerebbero la qualità . E quando parlo di qualità  mi riferisco all’informazione, all’infotainment, agli spettacoli, non solo all’opera lirica e alle mostre d’avanguardia. La rinascita della tivù americana è passata attraverso la fiction dove oggi i migliori attori, registi e sceneggiatori fanno a gara per parteciparvi.
Prima – La differenza è che chi ha in mano la produzione di fiction negli Usa non sono i broadcaster ma le case di produzione. Da noi Rai e Mediaset hanno fatto tagli spaventosi al settore, che sta entrando in agonia. Voi suggerite anche di dare la caccia agli evasori del canone. Ma lo sa che il canone Rai è la tassa più odiata dagli italiani?
L. Sassoli – Perché non è giustificata. Chi non paga lo fa per una questione ideologica. Vede quel che passa il convento e si rifiuta di pagare.

Intervista di Alessandra Ravetta