In Italia la free press è in crisi per il calo delle entrate pubblicitarie, ma in molti altri Paesi va bene o benissimo. E il network di ‘Metro’ cresce e guadagna
Se fosse un italiano se la tirerebbe che manco vi dico. Invece Per Mikael Jensen, president e ceo di Metro International, la compagnia svedese che ha inventato il quotidiano gratuito d’informazione, nemmeno un poco. È stato giornalista e, pensate un po’, ne va fiero. Anche perché quella sua esperienza gli torna utile per vendere gli 8,5 milioni di copie che Metro totalizza in tutto il mondo, da Stoccolma a New York, da Città del Messico a Milano. In Italia Metro è nato nel luglio 2000 e nell’estate del 2008 è stato messo in vendita da Metro International. Dopo una trattativa andata a vuoto con il Gruppo 24 Ore, l’intesa è andata in porto alla fine del 2009 con lo stampatore Mario Farina che ha rilevato il quotidiano e siglato un accordo di franchising per l’uso del marchio Metro nel nostro Paese. Il direttore Giampaolo Roidi cita sempre una lettera di Carlo Castellani, un lettore, arrivata il giorno del suo insediamento alla guida del quotidiano, nel dicembre 2004, e che bene spiega l’appeal del giornale: “Se Metro avesse un costo e La Repubblica o il Corriere della Sera fossero in distribuzione gratuita, andrei a comprare il primo. Perché non posso dedicare ore a leggere notizie, perché non posso sfogliare pagine enormi nella calca, perché sono stufo della retorica dei giornalisti che riempiono le pagine di aggettivi, opinioni e dettagli inutili per dimostrare che si sono laureati in lettere, perché non uso il giornale per intrattenimento, ma per informarmi”.
Sono parole che scaldano il cuore in un momento in cui per la nostra free press la vita si è fatta difficile e gli investimenti pubblicitari, unica risorsa economica per questo tipo di giornali, si sono quasi dimezzati. Lo scorso autunno Caltagirone Editore ha eliminato 13 edizioni del suo Leggo per concentrarsi su Roma e Milano; poco dopo Rcs MediaGroup ha deciso di farla finita con la vita stentata di City, e nell’estate 2010 E Polis aveva cessato le pubblicazioni dopo cinque anni, soffocato dai debiti. In molti dicono e ripetono che per la free press non c’è futuro, assediata da web, smartphone e robetta varia.
Jensen non pare eccessivamente preoccupato. Seduto nel giardino interno del romano Hotel de Russie che un tempo fu sede storica della Rai, si guarda intorno divertito e ammirato. Passa un sacco di bella gente (siamo precisi: un sacco di belle donne) e lui ha uno sguardo attento senza perdere una battuta di quel che si dice. Sa bene che da noi le cose per la free press vanno maluccio, ma sa anche che il Metro italiano ha chiuso gli ultimi due bilanci non più in rosso e con un leggero utile ed è riuscito a far sopravvivere le sue sei edizioni, anzi ne ha aggiunta una in Sardegna. Lui comunque non è di quei manager che drammatizzano. E in fondo non ne ha motivo: dopo due anni di perdite, dal 2011 Metro International ha ripreso a guadagnare dopo essere uscito da mercati dove la free press era in crisi e aver investito (anche sul digitale) in altri decisamente promettenti. Risultato: un bilancio 2011 chiuso con 196,9 milioni di euro di ricavi netti (+12%), un margine operativo di 19,4 milioni (11,7 nel 2010) e un utile netto salito dai 2,9 milioni del 2010 a 4,7.
Prima – In questo momento in Italia la free press soffre, ma Metro esce in altri 22 Paesi del mondo: com’è la situazione generale?
Per Mikael Jensen – A parte la Grecia che ha i noti problemi economici, per il resto il mercato internazionale della free press segna una crescita, tanto che abbiamo più edizioni, più diffusione e stiamo cominciando a fare più soldi. In Svezia, per esempio, dopo un periodo di crisi ora c’è un aumento del 7% del lettorato. E succede anche in Italia: è il vostro stesso Censis a dire che i lettori stanno aumentando.
Prima – Ma un calo così forte del fatturato pubblicitario è una peculiarità italiana o succede anche altrove?
P. M. Jensen – Stia tranquillo, non siete i soli. Quel che succede da voi succede anche in Francia. La peculiarità italiana è un’altra. In tutto il Nord Europa la pubblicità investe un 30% in tivù, un altro 30% sulla carta stampata, un 30% su Internet e il 10% rimanente su tutto il resto. In Italia invece le proporzioni sono diverse: 10% sulla carta stampata, 60% sulla tivù e il resto diviso tra radio e Internet. Il che, mi lasci dire, è un fenomeno piuttosto inusuale: negli ultimi anni la pubblicità in tivù da voi non ha fatto che crescere e i prezzi si sono abbassati. Tutto questo per noi è un vero problema.
Prima – Lei quale futuro vede per la free press? C’è più d’uno che preconizza la sua prossima morte a causa del web.
P. M. Jensen – Non credo che la free press sia quasi morta e ho buoni motivi per pensarlo e dimostrarlo. Nei Paesi dove gli smartphone hanno una diffusione molto più alta che in Italia, la free press va molto bene. In Danimarca, che poi è il mio Paese, dove l’80% dei cittadini possiede uno smartphone e Copenaghen è completamente coperta dal wi-fi, noi non abbiamo nessun problema. Anzi, stiamo guadagnando quote di mercato. Siccome però siamo persone molto attente a quel che succede e non ci fidiamo del nostro ottimismo, ogni tre mesi conduciamo una ricerca specifica e ne viene fuori che i lettori che possiedono gli smartphone non sono affatto tentati di abbandonarci.
Prima – Eppure i veri concorrenti della free press sono sempre di più proprio gli smartphone.
P. M. Jensen – Lo sono – se lo sono – per quel che riguarda i lettori, non per la pubblicità . Vediamo se riesco a farmi capire. Immagini che il giornale equivalga ad andare in un ristorante dove ti servono gli antipasti, il primo, il secondo, il contorno e il dolce. Lo smartphone è come quando ti cucini a casa. Io vengo dal giornalismo e già trent’anni fa sentivo dire che i giornali erano moribondi per via della televisione e la generazione precedente aveva sentito dire che i giornali erano destinati a chiudere per via della radio. Quando è arrivato Internet hanno ripetuto la stessa solfa: i giornali moriranno, il New York Times chiuderà entro il 2024, eccetera. Mi ostino a pensare che ogni prodotto ha il suo spazio anche se quello spazio inevitabilmente è destinato a ridimensionarsi. Nessuna di queste tecnologie è però destinata a scomparire, creda a me. Solo che ci ritroveremo in più gente a tavola. Sicuramente i giornali avranno un loro declino ma sopravviveranno. Magari ce ne saranno di meno, ma ci saranno sempre. Sono sicuro che se davvero dovessero scomparire, poi verrebbe fuori qualcuno che li reinventerebbe dicendo: “Guardate che figata! Si legge dovunque, non ha bisogno di batterie e di wi-fi e ha tutte le notizie a portata di mano”.
Prima – Che Dio l’ascolti, Mr Jensen! A me i giornali piacciono un sacco.
P. M. Jensen – Ma guardi che poi non è difficile da credere. Prenda un articolo lungo. Se vuole può certamente leggerlo su un cellulare ma è fuor di dubbio che è molto meglio goderselo su un giornale di carta. Se invece cerca una notizia breve – che so? Il risultato di una partita di calcio – allora è più facile utilizzare lo smartphone perché è più immediato e più pratico.
Prima – Mi ha quasi convinto. Qual è la vostra strategia per il prossimo futuro, che appunto, come lei dice, vedrà più gente a tavola?
P. M. Jensen – La nostra strategia è quella di fare diventare la tecnologia mobile nostra amica, anche se ora è troppo presto per investire perché fra tre anni quell’universo sarà completamente diverso. Occorre quindi aspettare che la tecnologia si stabilizzi prima di fare investimenti seri.
Prima – Chi considera gli avversari più pericolosi? Il web, gli smartphone o i giornali tradizionali?
P. M. Jensen – Oggi come oggi i nostri veri avversari sono ancora i giornali tradizionali ma fra tre anni saranno gli smartphone a darci filo da torcere. La nostra battaglia con loro sarà tostissima. Si giocherà tutto sul tempo. Prenda il caso di uno studente che sta andando in treno all’università : da una parte ha il suo bello smartphone e dall’altra il giornale gratuito. Cosa dobbiamo fare per convincere quel ragazzo a informarsi non sul web ma aprendo e leggendo il giornale? È qui che entra in gioco la bravura dei nostri giornalisti che devono saper confezionare un giornale che possa essere letto in venti minuti, dia tutte le notizie importanti e sia capace di catturare l’attenzione dello studente fin dalla prima pagina, che poi è l’elemento di attrazione più potente.
Prima – Eppure c’è ancora molta gente che pensa che la free press non produca vero giornalismo. Lei crede davvero che si possa fare della buona informazione con la free press?
P. M. Jensen – Certo che sì! Noi non smettiamo mai d’investire sulla qualità editoriale di Metro. Attualmente lo stiamo facendo in particolare nei Paesi dell’America Latina, in Canada, nel Nord Europa, in Russia, in Asia. Gli articoli sono destinati a diventare più lunghi e ad avere più contenuti. Questo per dirle che la free press si è molto evoluta, tanto che abbiamo redazioni dove ci sono una cinquantina di giornalisti che riescono a mettere in pagina notizie approfondite, meditate, analizzate.
Prima – Sono i Paesi che ha appena citato quelli che rappresentano il futuro per i vostri prodotti?
P. M. Jensen – L’anno scorso abbiamo lanciato Metro in tre Paesi del Centro e del Sud America: Guatemala, Perù e Colombia. Ora, in quella parte di mondo, siamo presenti in sette Paesi e spero che presto ne aggiungeremo due, il che significa che copriamo il 90% dell’America Latina, tanto che siamo il primo giornale in Messico, in Brasile, in Cile, in Ecuador, il secondo giornale in Perù e in Colombia (ma anche qui abbiamo l’ambizione a diventare il primo). Stiamo anche studiando il mercato cinese che è molto, molto interessante. Il mese scorso ho visitato Guangzhou (un tempo conosciuta come Canton: ndr) che ha ben 10 milioni di abitanti con 17 giornali. Solo in quella città si vendono tanti giornali quanti se ne vendono in tutta Italia e una delle loro testate fa da sola il fatturato di tutte le testate italiane.
Prima – Mi sembra un po’ difficile dire che in Cina esista la ‘free press’.
P. M. Jensen (ridendo) – Certo, dipende da cosa intende per free press. Se intende ‘stampa libera’, no, non ci siamo; ma se intende ‘giornale gratuito’, allora sì. Esiste ed è un fenomeno molto diffuso. Vede, i cinesi hanno un’apertura mentale che noi nemmeno immaginiamo. In tutta la loro storia i cinesi non hanno mai iniziato una guerra fuori dal loro territorio perché a loro non interessa conquistare il resto del mondo, non vogliono imporre la loro cultura. Ed è per questo che vinceranno. Prima – Mica vero: pensi al Tibet. Se lo sono divorato e lo tengono in catene.
P. M. Jensen – È vero. Il Tibet fa eccezione. È che loro lo considerano Cina.
Prima – Torniamo alla free press. È possibile definire il profilo del lettore tipo?
P. M. Jensen – Ci sono alcuni elementi che unificano tutti i lettori dei 23 Paesi dove siamo presenti: sono cittadini metropolitani, possiedono gli stessi valori e livelli culturali, vanno dai 20 ai 40 anni e non leggerebbero giornali come Repubblica o il Messaggero. Si tratta di lettori molto particolari, con un buon livello scolastico, di ceto medio e medio alto.
Prima – Come si spiega il fatto che in Italia Metro tenga botta meglio degli altri free press pur essendo ugualmente colpito dalla crisi pubblicitaria?
P. M. Jensen – La vera ragione è che noi siamo nati per fare la free press, mentre gli altri editori c’erano perché c’eravamo noi, per farci concorrenza. In loro non c’era la passione. Noi siamo sopravvissuti perché questo è il nostro pane, questo sappiamo fare e lo facciamo, appunto, con molta passione.
Intervista di Daniele Scalise