Bisogna saper integrare, e allo stesso tempo differenziare, i tre principali strumenti: giornale, sito e tablet, dice Dario Cresto-Dina, vice direttore di Repubblica, innamorato del buon giornalismo.
“E per sopravvivere il quotidiano di carta stampata deve diventare comunità , fare approfondimenti, offrire grande qualità di scrittura. E non mettere i suoi migliori pezzi su Internet”.
Avendo conosciuto due soli giornali nell’arco di trent’anni, anche se non proprio fedele nei secoli come un carabiniere, questo giornalista cinquantenne dalla carriera già ampia e luminosa può dirsi un’eccezione. Secondo un suo (nostro) celebre collega che inchiodò nella storia di uno dei mestieri più antichi del mondo (sì, insieme a quell’altro: qualche attinenza c’è) il motto “un bravo giornalista si vede dalle liquidazioni che ha preso”, più che un’eccezione sarebbe un pirla. Ma queste sono scemenze, aneddoti da salotto. A Dario Cresto-Dina dobbiamo invece riconoscere due qualità ultimamente poco praticate: la coerenza e l’amor di bandiera. Dopo un paio d’ore di confronto ho capito che la lunga militanza – prima alla Stampa, vent’anni, e poi a Repubblica, dodici per ora – viene da lontano. E ho scoperto che in lui regna una doppia personalità , o meglio una doppia anima.
Prima che il lettore sia colto da mal di testa o molli questo articolo, è bene che mi spieghi subito. La fedeltà e la rettitudine di Cresto-Dina si spiegano soprattutto con la sua origine. Fu messo al mondo nel 1960 da genitori poveri, molto poveri, figlio unico perché non potevano permettersene altri. Poveri che nuotavano in un mare di povertà . Per il loro matrimonio ricevettero una trentina di saliere, quanti erano gli invitati, tutte uguali: la cosa utile che costava di meno. Ma la povertà è una grande maestra di vita: insegna l’apprezzamento dei beni, la riconoscenza, il valore del sacrificio.
La famiglia Cresto-Dina viveva a Cuorgnè, cittadina medievale di neanche 10mila anime a 40 chilometri da Torino, la cui gloria più conosciuta è Carlo Bergoglio, meglio conosciuto come Carlin, giornalista e caricaturista sportivo del Guerin e di Tuttosport, di cui fu anche direttore. Ma non proprio a Cuorgnè: fuori Cuorgnè, in una casa di campagna con l’aia e i polli. Suo padre Vincenzo portava a casa un magro stipendio da operaio tornitore di una fabbrica metalmeccanica, la mamma Adelvis badava alla casa, all’orto, agli animali, a rinfocolare il camino. Si chiamava proprio così, Adelvis, che non era neanche la storpiatura di Edelweiss, ma un nome di ignota derivazione in uso, anche se raro, nel Friuli. Veniva da una frazione di Cormons, durante la guerra la sua famiglia si trasferì in Jugoslavia e infine fu sfollata in Piemonte. Insomma, anche la storia di Adelvis è una delle tante sfaccettature dell’Italia sudore e sangue del dopoguerra.
Quando Dario venne alla luce, la guerra era sì lontana, ma le sue scorie sparse ancora per tutto il Paese. Nel casolare della campagna di Cuorgnè arrivò di corsa una levatrice che, mentre Vincenzo bolliva l’acqua e sua sorella, zia Piera, preparava le bende, istruì e poi assistette Adelvis nel parto. Dopo un anno appena, Vincenzo partì per Aosta, dove ebbe occasione di aprire una macelleria. Ad Adelvis promise che in breve la situazione economica sarebbe migliorata e lei e il bambino avrebbero potuto raggiungerlo. Trascorsero invece cinque anni, nel corso dei quali Dario ebbe due mamme: la sua mamma naturale, che spesso si spostava ad Aosta, e la zia Piera.
Trascorse un’infanzia solitaria. Non frequentò l’asilo, costava troppo, fino all’età di 10-11 anni trovò solo compagnie femminili: la mamma, zia Piera, una cugina di dieci anni più grande. Anche quando finalmente la famiglia si riunì ad Aosta, Dario era l’unico maschio tra i tanti bambini delle ‘case sparse’, cioè la frazione di Aosta dove abitava. L’assenza di compagni di giochi forzò la sua fantasia: costruì una casa sugli alberi, visitò le grotte scavate dai partigiani per nascondersi ai nazifascisti.
Ripensando a quegli anni, oggi Cresto-Dina sorride: “Non rimpiango niente. La solitudine e le compagnie femminili mi insegnarono due cose: il mezzo punto e punto a croce, e a leggere e scrivere a cinque anni”. A lavorare a maglia ha smesso presto, la lettura e la scrittura sono diventati invece il suo pane. Era (ed è) un lettore compulsivo: da Salgari a Topolino prima, poi tutto Pavese, poi ancora tutto Fenoglio. Scoprì che il secondo, più del primo, riusciva a entrare nell’anima dei personaggi, si sentiva più vicino al partigiano Johnny che al professor Corrado della ‘Casa sulla collina’.
Anche questa strada della letteratura, però, incontrò inizialmente degli ostacoli. Il più alto fu la volontà dei suoi genitori di avviarlo verso un futuro magari modesto ma garantito, che allora era rappresentato dal posto in banca. Dopo le elementari, quindi, fu messo sui banchi di ragioneria. Dario ne fu frastornato. Con i numeri bisticciava, mentre adorava le materie umanistiche. Fece un patto con alcuni compagni di classe: voi mi passate i compiti di matematica ed economia aziendale, io quelli di italiano e storia. Così se la cavò e si iscrisse – stavolta fece di testa sua – alla facoltà di lettere moderne con indirizzo storico all’università di Torino.
Strinse amicizie, sia a Torino sia ad Aosta, con ragazzi di sinistra, “pur sempre”, tiene ora a precisare, “nell’ambito di una sinistra moderata”. In famiglia di politica non si parlava mai. “Mio padre era troppo occupato a lavorare per sostenere la famiglia. Le mie idee me le sono fatte da solo, guardando ciò che succedeva, leggendo, parlando con la gente”.
Non ebbe modo di completare gli studi universitari, diede solo sette esami, poi dovette tirar su qualche soldino. A 19 anni trovò spazio e uno stipendiuccio nella cronaca di una delle prime tivù private, Rta di Aosta, dove svolgeva servizi e conduceva il tg della sera. Una volta lo mandarono a Courmayeur dov’era arrivato il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, e in quell’occasione incrociò per la prima volta Ezio Mauro, inviato della Gazzetta del popolo, che avrebbe avuto un ruolo importante nello sviluppo della sua carriera. Non si conoscevano né si presentarono.
La tivù aostana durò, purtroppo, solo un anno. Dario tirò avanti collaborando con piccole testate locali, ma ormai la strada era segnata. E il colpo di fortuna giunse alla fine del 1980. Anche se è difficile immaginare che fare il fattorino potesse preludere a una brillante carriera di giornalista.
Dario conobbe un anziano giornalista di Stampa Sera che per spedire le sue corrispondenze usava un ‘fuori sacco’ molto artigianale: qualcuno doveva portare il suo pezzo al casello autostradale di Aosta, chiedere a un automobilista il favore di consegnare la busta al casello di Torino, dove un impiegato del giornale sarebbe andato a prelevarla. Se pensiamo ai sistemi di trasmissione di oggi sembra di tornare a un secolo fa, invece sono solo una trentina d’anni.
Per pochi spiccioli, Dario si offrì di coprire il primo tratto della staffetta con la propria Vespa. E un giorno prese coraggio e chiese all’anziano giornalista: “Voglio provare a entrare alla Stampa, cosa mi consigli?”. “Fai una telefonata al capo redattore”, fu la scarna risposta.
Dario tentennò a lungo, poi – più per scrupolo che per altro – fece il numero. Prima sorpresa: gli passarono al telefono il caporedattore. Seconda sorpresa: il caporedattore gli chiese di venirlo a trovare. Questa volta non esitò. Il giorno dopo si presentò, ben vestito, ben rasato e con i capelli a posto, alla redazione di Torino. Le prime parole di Pierangelo Coscia, il caporedattore, gli fecero salire la pressione a mille: “Stiamo pensando di aprire una redazione ad Aosta, lei sarebbe disponibile?”. Tornò ad Aosta con la promessa che nel frattempo avrebbe scritto per la pagina della Vallée che usciva due volte alla settimana. E il 21 settembre del 1981 ricevette la lettera di assunzione. Aveva dunque solo 21 anni, ma una scorza già dura quando ebbe inizio il suo lungo percorso con il quotidiano torinese che lo avrebbe portato fino alla vice direzione.
Fin qui è stato spiegato il primo quesito, cioè perché la fedeltà e la lunga militanza vengono da lontano. Il secondo, la teoria delle due anime, dev’essere ancora chiarito e lo sarà fra poco, durante la conversazione che segue. Ma forse, per comodità del lettore, è meglio anticipare cosa intendo per due anime: la prima è quella dell’uomo elegante, colto, rigoroso, ma anche un po’ démodé, legato alle tradizioni e alla conservazione di valori perduti, incline alla solitudine, ai silenzi e alla meditazione. La seconda è quella di un innovatore, che studiava il rapporto fra vecchi e nuovi media quando ancora non esisteva la frenesia internettiana, e che nel suo attuale giornale, Repubblica, dove approdò nel 2000 e di cui è oggi vice direttore, è una delle figure più avanzate nella ricerca delle soluzioni editoriali di fronte alle nuove tecnologie. Una straordinaria fusione fra Leonard Cohen (uno dei suoi autori preferiti) e Steve Jobs.
Franco Recanatesi – Venti anni alla Stampa, un pezzo di vita, un romanzo. Ma non avendo il tempo né lo spazio per raccontarli nel dettaglio, facciamolo sinteticamente attraverso il lungo elenco dei tuoi direttori.
Dario Cresto-Dina – Il primo, Giorgio Fattori, neanche l’ho mai visto perché ero nella redazione di Aosta. A Torino mi portò Gaetano Scardocchia. Avevo avuto un’offerta dalla Rai, ma a me piaceva scrivere, sentire il suono delle parole sulla carta. Bussai allora alla porta del direttore e gli dissi “c’è questa proposta, ma io vorrei rimanere”. Mi diede una sostituzione estiva, poi fui confermato.
F. Recanatesi – Era il 1986. E siamo già a due direttori.
D. Cresto-Dina – Scardocchia merita due parole in più. Veniva dall’America, era un innovatore, puntava sui giovani. Non parlava col Palazzo, e questo snobismo in qualche misura lo pagò. Sapeva insegnare giornalismo. Creò una scuola all’interno della Stampa alla quale si accedeva attraverso una selezione. Ne furono accettati 18, in gran parte furono assunti. Fra questi c’era Gabriele Romagnoli, che di strada ne ha fatta. Con Gabriele siamo rimasti amici fraterni.
F. Recanatesi – Scardocchia, se posso aggiungere altre qualità , era anche un gran motivatore. Dopo di lui quanti altri direttori hai avuto?
D. Cresto-Dina – In ordine cronologico: Paolo Mieli, Ezio Mauro, Carlo Rossella, Marcello Sorgi.
F. Recanatesi – Puoi darmi anche un ordine di merito? A tuo giudizio, ovviamente.
D. Cresto-Dina – No.
F. Recanatesi – Un ordine di qualità di rapporto, allora.
D. Cresto-Dina – Dalle direzioni di Mieli e Mauro ho imparato tanto. Abbiamo imparato tanto in molti. La Stampa era come un incrociatore che si muoveva fra le due corazzate Corriere della sera e Repubblica. In quegli anni sono passati al giornale colleghi del calibro di Gad Lerner, Luigi La Spina, Enzo Bettiza, Frane Barbieri, Paolo Guzzanti, Vittorio Zucconi. E crescevano dei giovani come Pino Corrias, Curzio Maltese, Massimo Gramellini, Gabriele Romagnoli. Sulle nostre pagine firmavano Norberto Bobbio, Galante Garrone, Guido Ceronetti, Lorenzo Mondo. E anche Giovanni Falcone e Antonino Caponnetto. Era un giornalone. Nelle riunioni di redazione mi facevo piccolo piccolo, non mi sentivo all’altezza.
F. Recanatesi – Ricordo che anche noi di Repubblica vi guardavamo con timore. Mi pare che il ‘mielismo’ ci rubò qualche copia.
D. Cresto-Dina – L’alto-basso, lo chiamavamo noi. Far intervenire personaggi lievi, singolari, su temi importanti, principalmente di politica. Ora non funzionerebbe più, ci vogliono altri strumenti per fronteggiare i nuovi mezzi di comunicazione, tener conto di una nuova realtà . Quand’ero alla Stampa partecipai a tanti forum sul futuro dei giornali. Si diceva: non moriranno mai perché il giornale te lo porti ovunque. Oggi anche i telefonini, l’iPad e tanti altri apparecchi mobili te li porti ovunque, le notizie ti arrivano in casa, in auto, in treno, in spiaggia e sulle piste di sci in tempo reale. Perché dovresti uscire, andare all’edicola e comprare un giornale con le notizie che già conosci?
F. Recanatesi – Perché un giornale è di carta e perché ti dà qualcosa di più.
D. Cresto-Dina – Il gusto della carta ce l’abbiamo tu, io e altri delle vecchie generazioni. Io ho un figlio di 18 anni, Jacopo, che vive a Milano. Non solo un figlio: un amico, un confidente. Bene, lui e i suoi compagni del liceo classico il giornale non lo comprano. Qualcuno lo legge solo se lo trova in casa.
F. Recanatesi – Sei fra quelli che prevedono il disastro, che pensano: ecco, fra poco i giornali tireranno le cuoia? Io non ci credo.
D. Cresto-Dina – Io neanche. Non ci credo perché concordo con la tua seconda obiezione: il giornale deve dare qualcosa in più. E credo che ci riusciremo, perché ho fiducia nell’intelligenza e nella professionalità dei giornalisti. Bisogna studiare, confrontarsi, trovare le giuste misure. Una, molto importante, è stata già adottata da tutti: affiancare al giornale gli strumenti delle nuove tecnologie della comunicazione: il sito Internet, l’iPhone, i tablet, Twitter, Facebook, i blog.
F. Recanatesi – Affiancare non basta e si è visto.
D. Cresto-Dina – Verissimo. Ora viene il difficile: bisogna saper integrare, e allo stesso tempo differenziare, i tre principali strumenti: giornale, sito e tablet. Fra il giornale e il suo sito c’è un’esagerata sovrapposizione, che induce il lettore a pensare che il sito sia la trasposizione del giornale. E quindi dice: me lo leggo su Internet, che lo compro a fare? È un errore mettere un bel pezzo sul sito per avere più contatti.
F. Recanatesi – Questo lo fate anche voi di Repubblica.
D. Cresto-Dina – Non ho detto che Repubblica ha trovato la chiave del problema. Anche noi stiamo cercando la giusta via. La domanda da un milione di dollari è questa: come motivare il lettore a comprarti in edicola? Chi trova la risposta giusta ha fatto bingo.
F. Recanatesi – Conosciamo la teoria ma non sappiamo metterla in pratica. La teoria dice che il giornale di informazione generalista non vale più una cicca. E allora?
D. Cresto-Dina – Allora i giornali devono marciare su una triplice corsia: diventare comunità , fare approfondimenti, offrire grande qualità di scrittura.
F. Recanatesi – Sul giornale-comunità si sta marciando. E Repubblica, onore al merito, guida il gruppo.
D. Cresto-Dina – Abbiamo creato un senso di appartenenza difficilmente riscontrabile in altre testate nel mondo. Con tante iniziative: dalla lunga stagione di opposizione a Berlusconi alla ‘Repubblica delle idee’, gli incontri con i lettori a Bologna, che ripeteremo e moltiplicheremo. Stiamo aumentando e potenziando i blog e i social network. Siamo i primi in Europa a fare un giornale della sera su iPad, in linea alle 19 dal lunedì al venerdì. Una iniziativa molto apprezzata da tutti. Le Monde, El Paàs, Le Figaro stanno pensando di imitarci.
F. Recanatesi – L’impegno vostro, ma anche delle altre principali testate, è avere scambi, aggregare, coinvolgere il maggior numero di persone, riunirle sotto una bandiera. Ma poi, come abbiamo visto, occorre anche ripensare il giornale. Non può essere più un notiziario, la cronaca del giorno prima.
D. Cresto-Dina – Certamente no. Dovrà puntare sugli approfondimenti e sui retroscena delle notizie. Dovrà essere alleggerito, sia nel numero delle pagine sia nei contenuti, Dovrà tornare a una grande qualità di scrittura.
F. Recanatesi – Si è smarrita, sì. Colpa di Internet che ha imposto un nuovo modo di cercare e raccogliere elementi e di raccontare. Sei d’accordo?
D. Cresto-Dina – In parte è vero. Lo rilevai già una decina di anni fa, quand’ero a Milano per Repubblica. A me piace molto lavorare con i giovani e in redazione ce n’erano molti usciti dalle scuole di giornalismo. Notai una profonda omogeneizzazione nel loro metodo di lavoro e nella loro scrittura. Oggi la stessa cosa mi succede esaminando gli elaborati del bando di concorso per le borse di studio indette dalla Fondazione Mario Formenton, della cui commissione faccio parte. Sono tutti uguali, non c’è chi cerca di accattivare il lettore con l’uso della parola. Ma l’avvento delle nuove tecnologie c’entra solo parzialmente. Manca la scuola, manca l’applicazione. Io, che ho sempre cercato chi mi insegnasse a migliorare, fatico oggi a trovare maestri. Me ne vengono in mente pochi: Francesco Merlo, Bernardo Valli, Natalia Aspesi, Barbara Spinelli. Ci metto pure Mariarosa Mancuso, un faro nella scelta dei film da vedere. E parlando di maestri non posso non citare e mettere in prima fila Giorgio Bocca, al quale volevo un bene dell’anima, che spesso mi invitava a casa sua per serate piacevolissime, mi diceva dei no sconsolati ad alcune proposte di servizio che gli dovevano sembrare da dementi e scriveva come un dio. Tra quelli da cui ho imparato c’è anche Giuseppe D’Avanzo, abile come nessun altro a ordinare il mosaico dei fatti e arrivare alla sostanza. Maestri che resteranno sempre in vita con i loro scritti.
F. Recanatesi – Non si legge solo per imparare, autori stimolanti ne avrai nelle tue consuetudini.
D. Cresto-Dina – La ferocia di Andrea Marcenaro sul Foglio è geniale. Trovo sempre gradevole Malcom Pagani sul Fatto. Apprezzo molto Maurizio Milani. L’avevo preso a Milano come collaboratore su consiglio di Carlo Annovazzi. È l’unico autore comico che mi fa ridere quando lo leggo.
F. Recanatesi – Io ne ho un altro: Michele Serra della ‘satira preventiva’ sull’Espresso.
D. Cresto-Dina – Giusto, giustissimo, chiedo venia.
F. Recanatesi – Alla Stampa e a Repubblica ti dipingono come un fortissimo organizzatore e uomo di macchina, ma nella tua carriera brillano anche alcune celebri interviste. Raccontami come andò con Veronica Lario.
D. Cresto-Dina – Ho fatto ciò che un qualsiasi capo della redazione milanese avrebbe fatto: cercare un contatto con i principali personaggi della città . La Lario era la first lady d’Italia. La cercai ripetutamente, finalmente si decise a vedermi. A maggio del 2006 mi invitò a pranzo nella residenza di Macherio, poco prima del voto che avrebbe determinato la sconfitta di Berlusconi e la vittoria di Prodi. Ma con un patto: niente interviste. Parlammo per due ore, alzandomi da tavola le dissi: “È stata una conversazione interessante, io scriverei”. “Ma non ha preso appunti”, mi rispose. “Ho buona memoria”, ribattei, “ma per sua garanzia prima della pubblicazione le mando il pezzo”. Mi diede l’ok e l’intervista uscì. Nel gennaio del 2007, alla premiazione dei Telegatti, Berlusconi fece la celebre battuta alla Carfagna, “Se potessi, ti sposerei”. La domenica dopo, 28 gennaio, ero a sciare con mio figlio Jacopo. Sulle piste il cellulare non prendeva, quando tornai in albergo ricevetti una telefonata della segretaria di Veronica, un po’ seccata: “È tutto il giorno che la signora la cerca, ora gliela passo”. “Voglio rispondere a mio marito”, mi disse, “io di lei mi fido”. Mi chiese un consiglio: se farlo attraverso un’intervista o una lettera. Le suggerii la seconda soluzione, più garantista per lei. Mi mandò il testo in cui chiedeva le scuse del marito, che Repubblica pubblicò sul numero di mercoledì 31, ultimo dell’anno. Da allora ci siamo sentiti qualche volta al telefono e ci siamo visti due volte a cena, lei sempre con l’autista e la scorta. A fine aprile del 2009 scoppia il caso Noemi. Leggo le dichiarazioni sdegnate di Veronica all’Ansa, la chiamo, eravamo passati al ‘tu’: “Non è che stai pensando al divorzio?”. Non mi risponde né sì né no. Mi telefona il 1° maggio: “Ho deciso, mi separo”. La mattina dopo, uscita la notizia, correttamente chiedo a Palazzo Chigi un’intervista a Berlusconi. Mi chiama qualche ora dopo Bonaiuti: “Il presidente non ha intenzione di rispondere. E comunque l’ultimo con cui lo farebbe sei tu”.
F. Recanatesi – Ricordo anche una tua intervista a Brigitte Bardot.
D. Cresto-Dina – Non l’ho neanche vista. Mi ha fatto mandare le domande scritte, trenta, e mi ha risposto su un foglio scritto a mano. Ho conservato l’originale.
F. Recanatesi – Di Alda Merini racconti che durante il colloquio fumava in continuazione gettando le cicche ancora accese sul pavimento.
D. Cresto-Dina – E alla fine mi regalò una riproduzione dell”Origine del mondo’ di Courbet scrivendoci sul retro una dedica con il rossetto.
F. Recanatesi – Ti dipingono un solitario. È vero?
D. Cresto-Dina – Vero. Lo sono fin da bambino. Vivo da solo e non accendo mai la televisione perché odio i rumori. Preferisco ascoltare della buona musica, classica o Paolo Conte, Leonard Cohen, i Sigur Rà³s. Ma ciò non significa che non ami la compagnia. Di mio figlio, soprattutto: è simpatico, ho un rapporto di amicizia, ci prendiamo in giro. Con alcuni amici e amiche, quelli giusti. Con i compagni di sport, calcio, calcetto e tennis. Con i miei libri. È fantastico stare in compagnia di Cormac McCarthy, di Romain Gary, di Haruki Murakami.
F. Recanatesi – Devi togliermi, per finire, una curiosità . Perché dei tuoi direttori alla Stampa ne hai citati alcuni e altri no?
D. Cresto-Dina – Perché da alcuni ho imparato come si deve fare un giornale, da altri come non si deve fare. Intervista di Franco Recanatesi