Bilancio provvisorio dei magazine digitali, belli e accattivanti. Ma non funzionano. Ecco perché

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Sviluppare un software potente e innovativo, trovare una nicchia e lanciare il prodotto su App store, è quanto basta per dar vita un magazine digitale di successo, in grado di attrarre utenti e investitori pubblicitari. La pensava così Jon Lund, startupper e presidente della Danish online news association. Ora non più. Su Gigaom.com esprime tutto il suo scetticismo per l’attuale  modell0 di business legato ai periodici digitali.

Jon Lund, esperto dei media e presidente della Danish online news association

“Non penso che i tablet non siano adatti ala lettura, Zite, Flipboard, Facebook e Twitter sono infatti ottimi strumenti, ma non producono contenuti, aggregano semplicemente articoli scritti da altri. Ma mi sono accorto di non leggere le app dei singoli magazine, anche quelle per cui pago un abbonamento mensile”, scrive Lund.

Solo otto app al giorno
Nel 2012 gli utenti hanno scaricato 41 app sui loro smartphone (dati Nielsen). Ma uno studio di Flurry rivela che i programmi effettivamente aperti sono 8 al giorno: le più popolari sono Facebook, Youtube e i giochi. Secondo i dati di Localytics riferiti al 2012 il 22% delle applicazioni vengono aperte una sola volta.

Schiacciate dal flusso d’informazioni
A peggiorare le cose, spiega Lund, le app dei magazine diventano invisibili nel flusso d’informazioni che governa la Rete. E non molti riflettono sul fatto che, legando gli articoli a un app anziché a un sito, i contenuti non vengono indicizzati dai motori di ricerca, e non è possibile cercarle. Ciò significa che i magazine digitali rinunciano al principale vettore di traffico disponibile oggi: Google. La stessa cosa si verifica con i social media e con Flipboard e Zite: gli aggregatori non possono “leggere” gli articoli di un’edizione digitale e i lettori non possono consigliare un contenuto agli amici.

Un monolite preistorico
“Anche quando trovo il tempo di leggere un magazine su Ipad, mi ritrovo tra le mani un prodotto datato”, racconta Lund. Eppure questo tipo di app sono pensate per essere accattivanti, multimediali e interattive. Ma il layout è sempre derivato dall’edizione cartacea e, tradotto per i tablet, diventa monolitico. E così Lund preferisce il web, che è più confusionario, ma più aperto, accessibile e si adatta meglio ai bisogni di tutti.
Inoltre, la maggior parte di questi prodotti falliscono miseramente quando si tratta di social network: i contenuti non si possono commentare, non si possono twittare e non si possono condividere. È qualcosa in netta controtendenza con lo spirito sociale del web.

Ma c’è chi è disposto a pagare?
Il 2013 è l’anno del sorpasso: si venderanno più tablet che portatili. La sola Apple vende dai 15 ai 20 milioni di Ipad ogni quadrimestre, ma per le app a pagamento la storia è diversa.
Tra gli esempi presentati da Lund, quello più significativo è Wired, la cui vocazione digitale è indiscutibile. L’edizione Ipad è stata lanciata nel maggio 2010, ma alla fine del 2012 gli abbonati Ipad erano solo 102 mila, contro gli 850 mila dell’edizione cartacea. Questi sono  numeri che scompaiono di fronte al sito web, visitato ogni mese da 20 milioni di utenti unici.
Per quanto riguarda i periodici senza edizione cartacea, un caso esemplare è “The Daily”. Il settimanale digitale è stato lanciato dal colosso dei media News corp. e veniva venduto a 99 centesimi di dollaro. Ha chiuso dopo due anni, gli abbonamenti erano poco più di 100 mila, insufficienti a mantenere il progetto sostenibile.

Quella di Lund non è un invito ad abbandonare il digitale, ma a ripensarlo in modo aperto, sociale, in grado di far parte del flusso dell’informazione del web, non rinchiuso nelle app.