Marina ha detto sì

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Prima Comunicazione n° 443 – Ottobre 2013

L’approvazione di Marina Berlusconi spiana la strada alla fusione tra Mondadori Pubblicità e Publitalia che si preparano a dar vita alla più grossa forza vendita in Europa. Intanto al gruppo di Segrate va veloce il piano di risparmi e rilancio di Ernesto Mauri.

 

L’EDITORIALE DI QUESTO NUMERO

Rileggendo 40 anni di ‘Prima’ e il libro di Martelli…
Lavorare ai numeri speciali per gli anniversari di un giornale dà un gusto particolare e libera molti fantasmi. Me ne sto rendendo conto nel costruire quello dedicato ai quarant’anni di Prima che manderemo in edicola a novembre. Mentre ripercorri le storie che hai raccontato, i personaggi che hai scovato o che hai mazzolato, ti scorrono sotto gli occhi pezzi della tua vita che avevi dimenticato e di cui ti erano rimasti in tasca solo alcuni fatterelli e molte storie sommarie. È un notevole, a volte poco piacevole, esercizio di memoria che ti mette di fronte a errori di valutazione e alla dose sindacale di coglionaggine che tocca a tutti noi esseri umani.
Mentre rileggevo ciò che avevamo scritto e pubblicato tra il 1976 e i primi anni Ottanta sul Corriere della Sera, dall’entrata di Agnelli e Moratti all’ingresso dei Rizzoli e al loro rapido precipitare nella rete del Banco Ambrosiano e della P2, mentre mi tornavano davanti agli occhi quelle maschere tragiche finite in galera o sotto terra, sfogliavo il libro fresco di stampa di Claudio Martelli ‘Ricordati di vivere’, edito da Bompiani. L’ex enfant prodige del Partito socialista racconta con un piglio non banale molti episodi della sua vita personale e politica tra cui l’incontro, a fine anni Settanta, con il ben poco venerabile maestro Licio Gelli. La missione era quella di convincerlo a convincere il Corrierone, sensibile al fascino dei comunisti e indifferente se non addirittura ostile nei confronti dell’energico Psi di Bettino Craxi, a cambiare musica.
“Il nostro problema”, scrive Martelli senza pudore nel mostrare la debolezza sua e del partito nei confronti di quell’arrogante interlocutore, “non era strappare qualche intervista e qualche spazio in più; il problema era l’orientamento generale, l’indirizzo politico”. Davanti a un mefistofelico Gelli, Martelli piagnucola che “Tassan Din rema contro di noi. Lui è ancora per l’unità nazionale, per Andreotti, per i comunisti”. Lo confesso, noi di Prima abbiamo dovuto aspettare di leggere le carte di Castiglion Fibocchi per capire che l’Alieno che stava divorando il gruppo Rizzoli e il Corriere era pilotato da Gelli e dalla banda della P2. Vero anche è che da un po’ di tempo avevamo intuito che le cose stavano prendendo una brutta piega. Che i condizionamenti della politica democristiana e delle banche (l’Ambrosiano) avevano influenzato i Rizzoli che, al debutto come editori del Corriere, avevano confermato Piero Ottone alla direzione e ingaggiato per i periodici un bravo e onesto manager come Giorgio Trombetta Panigadi che a sua volta aveva chiamato Gianluigi Melega a rilanciare l’Europeo per farne un news magazine capace di competere con L’Espresso e Panorama. L’idillio era però durato poco perché Melega si era messo a imbastire pezzi su Andreotti e sulle finanze vaticane (siamo nel 1977 e le malefatte dello Ior sono ancora oggi all’ordine del giorno!) senza cedere alle pressioni censorie dell’editore. Risultato: Melega venne liquidato dopo solo sei mesi dal suo insediamento. All’epoca nessuno o quasi conosceva la P2, nessuno o quasi sapeva chi fosse Licio Gelli. L’unica cosa chiara era che, entrando nel quotidiano più importante d’Italia, i Rizzoli avevano perso la loro verginità da cummenda meneghini e dovevano fare i conti con le ferree leggi del potere politico finanziario.
D’altronde le perdite del bilancio 1976 dell’Editoriale Corriere della Sera di Andrea Rizzoli & C. ammontavano a 13 miliardi e 826 milioni, su cui già pesava un passivo della testata di 2 miliardi 683 milioni. Nell’agosto del 1977 la Rizzoli fu costretta ad aumentare di cinque volte il capitale sociale. Da dove venivano tutti quei danè? Nell’ottobre dello stesso anno Ottone lasciò la direzione di Via Solferino, sostituito da Franco Di Bella che arrivava dal Resto del Carlino, quotidiano del petroliere Attilio Monti. A quel punto era chiaro: “Les jeux sont faits”, come si sente ripetere a Montecarlo, meta preferita di quell’editore inconcludente che era Andrea Rizzoli. A novembre pubblicammo una copertina con suo figlio Angelo, che nel frattempo aveva preso potere in azienda, legato a una sedia a dondolo. Il titolo: ‘La primavera di Praga di Via Solferino è finita’. Sul nostro giornale si abbatterono fulmini e saette accompagnati da una immediata ritorsione che ci tagliava tutti gli investimenti pubblicitari di quella casa editrice.
Quello che Claudio Martelli omette è che alla fine anche i socialisti furono accontentati dai Rizzoli, o meglio da Tassan Din diventato l’arbitro incontrastato della situazione. Nel 1979 i Rizzoli vollero fare dell’Europeo un traino per i socialisti, portando alla direzione Mario Pirani, ex vice direttore di Repubblica, che costruì una redazione con i fiocchi e con molte firme provenienti dall’Espresso, il concorrente da battere per fare un giornale capace di dare, come raccontò lo stesso Pirani a Prima, “una prospettiva politica della seconda Repubblica”.
All’epoca Martelli era il responsabile informazione, cultura e spettacolo del Psi. Se da una parte cercava di creare un network di sostegno mediatico al partito, dall’altra immaginava una politica di riforme che riguardassero le culture di massa e i mass media. Nel ’78, al convegno ‘Informazione e potere’, i socialisti proposero buone idee snobbate se non addirittura osteggiate da moltissimi, soprattutto a sinistra. Quella sinistra che diffidava di un Psi che si era seduto al desco della Rai e si era abbondantemente servito come tutti gli altri commensali. Idee che se fossero state applicate non avrebbero autorizzato lo strapotere televisivo di Berlusconi e avrebbero aiutato la Rai a uscire dall’abbraccio mortale con la politica per diventare un’azienda normale. Idee che avrebbero facilitato l’Italia verso una transizione moderna. E che molto probabilmente ci avrebbero anche evitato le spassose (ma poi mica tanto) intemerate dell’onorevole Renato Brunetta contro Crozza, contro Fazio, contro tutti. Che, diciamoci la verità, sono troppo anche per uno stomaco robusto come il nostro.