Il Garante della privacy ha deciso di modificare il codice deontologico dei giornalisti, allegato alla legge sul trattamento dei dati personali. Alcune regole, però, rischiano di complicare ulteriormente il lavoro di chi fa informazione. A riflettere sulla questione è l’avvocato Caterina Malavenda (che cura le vicende legali del Corriere della Sera) in questa lettera pubblicata oggi sul quotidiano diretto da Ferruccio de Bortoli.
Caro direttore, il Garante della privacy ha deciso di modificare il codice deontologico dei giornalisti, allegato alla legge sul trattamento dei dati personali. A regole condivisibili e rodate, ne aggiunge altre, alcune delle quali rischiano di complicare ulteriormente la vostra vita e meritano, perciò, qualche riflessione.
Chi fa informazione può trattare quei dati, anche i più sensibili, senza il consenso del titolare, ma con le modalità stabilite appunto dal vigente codice deontologico, la cui violazione può generare già oggi gravi conseguenze e sul quale il Garante ha deciso di intervenire, per adeguarlo «alle mutate sensibilità», anche tenuto conto «delle implicazioni che l’evoluzione tecnologica ha sul modo di fare informazione. Caterina Malavenda (foto Olycom)
Una spiegazione che non giustifica, però, l’introduzione di ulteriori e serie limitazioni al diritto di cronaca. Il presupposto perché il giornalista possa utilizzare i dati altrui è e rimane l’essenzialità dell’informazione che essi debbono corroborare. Si tratta evidentemente di un limite assai vago per chi deve osservarlo e, soprattutto, suscettibile di valutazioni opinabili, da parte di chi – Garante o Tribunale – deve giudicarne il rispetto, sulla scorta di divieti generali e deroghe eccezionali, su cui il nuovo codice deontologico interviene ancor più incisivamente, rischiando di limitare troppo la circolazione delle notizie e di generare, a titolo precauzionale, una prudenziale autocensura, a scapito della completezza dell’informazione, importante tanto quanto la sua essenzialità. Il Garante codifica, così, per la prima volta, il diritto all’oblio, aggiungendo agli inediti e condivisibili obblighi, su richiesta dell’interessato, di aggiornare i dati, conservati negli archivi e di deindicizzare articoli assai datati, anche quello, assai meno condivisibile, di evitare ogni riferimento a particolari, relativi al passato «quando ciò non alteri il contenuto della notizia»; o persino, a distanza di tempo, l’obbligo di non citare il condannato, se ciò può incidere sul suo percorso di reinserimento sociale, senza alcuna eccezione.
Una coltre di silenzio potrebbe calare così sul passato di personaggi pubblici, ancora sulla scena e certo pronti a sostenere che una certa vicenda o una antica condanna siano oramai acqua passata ed a chiedere pesanti sanzioni per chi abbia osato rivangarle.
Davvero sorprendenti sono poi i limiti introdotti, per via amministrativa, alla cronaca giudiziaria, là dove persino la politica si era fermata. Così il giornalista dovrà tacere l’identità di chi è stato sentito in un procedimento giudiziario, a meno che sapere chi è non sia necessario per comprendere la notizia; ma soprattutto e questa volta senza nessuna eccezione, non dovrà consentire l’identificazione delle persone, a qualunque titolo citate negli atti del procedimento, ma non coinvolte, mentre nel citare gli indagati, «valuta comunque i rischi». Non è peregrino immaginare la schiera di coloro che sosterranno, a pieno titolo, l’inutilità e, quindi, la illegittimità della diffusione della loro identità.
Attenzione anche alla divulgazione degli atti di un procedimento, in particolare le intercettazioni: necessario evitare ogni riferimento ai soggetti «non interessati», salvo che sussista, concetto del tutto inedito, «un eccezionale interesse pubblico»; e privilegiare la pubblicazione del contenuto degli atti, in luogo del loro tenore letterale, quando «non sia compromesso il diritto di cronaca».
La struttura del nuovo codice è, dunque, omogenea, una somma di divieti chiari e di facoltà di deroga, dai contorni assai sfuggenti e dalla cui corretta interpretazione dipenderà la sorte del giornalista. Il trattamento dei dati, in violazione del codice deontologico, infatti, sotto il profilo delle conseguenze, equivale al trattamento senza il necessario consenso, un reato procedibile d’ufficio, punito con la reclusione – senza che nessuno si sia finora stracciato le vesti – se il giornalista lo ha commesso per ottenere un profitto per sé, quale può essere una promozione; o per altri, ad esempio per l’editore che, da uno scoop , trae un utile proporzionale al maggior numero di copie vendute.
È poi condotta pericolosa che causa sempre danni, salvo che si provi il contrario, che il giornalista e l’editore dovranno risarcire; ed è illecito disciplinare sanzionabile, nei casi più gravi, con la sospensione o la radiazione dalla professione.
Serve altro, per dissuadere anche i giornalisti più coraggiosi?
Caterina Malavenda, avvocato, specialista in Diritto dell’informazione
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