Rai: riforme, tagli, scioperi e tante polemiche

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Rai: ma quale servizio pubblico? Il Dossier del ‘Piccolo’ su missione, governance e canone. Ecco la situazione e i modelli

(Il Piccolo) Una riforma della Rai in 6 mesi. Questa l’intenzione del governo Renzi, secondo le ultime indiscrezioni pubblicate da Repubblica. Un cambiamento che riguarderebbe il servizio pubblico nella «governance, il canone e la legge Gasparri». A oggi, però, nel dl Irpef votato alla Camera , per la Rai c’è il taglio da 150 milioni. Un provvedimento che ha finalmente riacceso la discussione sul ruolo della tv di Stato in Italia.

Cosa dice il decreto

«La Rai è chiamata a concorrere al risanamento (dei conti pubblici ndr) con un contributo di 150 milioni di euro». Provvedimento annunciato il 18 aprile scorso da Matteo Renzi durante la presentazione del decreto legge Iperf. Nella prima versione del dl – pubblicato in gazzetta ufficiale il 24 aprile – la Rai, all’articolo 21, veniva autorizzata a vendere quote di società partecipate, anche di maggioranza e a riorganizzare le proprie sedi regionali.

(S)Vendere Rai Way?

Nella conferenza stampa di presentazione del dl, Renzi aveva parlato di «vendita di Rai Way». Con le modifiche apportate al testo nelle commissioni Bilancio e Finanza del Senato è rimasta la possibilità di vendere quote di minoranza della società, mantenendone quindi il controllo. Per Anna Maria Tarantola, presidente Rai, questa operazione nel breve periodo è «l’unica soluzione percorribile, per fronteggiare la riduzione di 150 milioni di euro degli introiti da canone (…)». Conferma che arriva anche dal direttore Luigi Gubitosi, direttore generale Rai, che intervistato dal Corriere della sera , ha spiegato che la quotazione di Rai Way è già operativa: «Abbiamo selezionato un gruppo di banche, di advisor».

C’è chi però al riguardo ha un giudizio negativo. Roberto Fico (M5s), presidente della commissione di Vigilanza Rai, ha infatti detto che « Rai Way è un bene pubblico, non si svende ».

> Ma quali compiti ha questa società nella galassia Rai e qual è il suo stato di salute?

Nata nel luglio 1999, diventa operativa da marzo 2000. Attualmente è controllata interamente dalla Rai. A Rai Way è stata trasferita la proprietà delle infrastrutture e degli impianti per la trasmissione e diffusione televisiva e radiofonica della Rai. Ci lavorano circa 600 ingegneri e tecnici ed è composta da 23 sedi territoriali e 2.300 siti dislocati in tutta Italia. Due le attività che svolge:

a) gestione e sviluppo delle reti di trasmissione e diffusione radiotelevisiva per la RAI

b) erogazioni servizi verso clienti business.

Dal bilancio 2013 emerge una società in piena salute. L’esercizio dell’anno scorso, infatti, si è chiuso con un utile netto di 11,8 milioni di euro, in aumento rispetto a quello del 2012 di 8,5 milioni di euro (+255%). I ricavi del 2013 sono stati pari a 219,2 milioni di euro, in diminuzione di 5,4 milioni di euro rispetto al 2012 (- 2,4%). Per i costi, il dato è di 132,8 milioni di euro, con una contrazione di 3,2 milioni (-2,3%) rispetto all’anno scorso. La capitalizzazione del personale è pari a 0,9 milioni di euro, diminuita di 1,3 milioni di euro rispetto al 2012 grazie all’impiego di risorse interne per attività di progettazione e installazione. Al 31 dicembre 2013 l’organico di Rai Way era composto da 601 unità (14 dirigenti, 118 quadri, 434 tecnici o impiegati e 35 operai). Nel corso dell’anno, 42 persone hanno aderito al piano di incentivazione all’esodo volontario. Altra fonte di risparmio è stata quella dei costi per le trasferte, ridotti di 0,8 milioni di euro.

La polemica sulle sedi regionali

Per risparmiare dalla riorganizzazione delle sedi regionali Rai, il governo ha fatto sua la proposta presente nel piano di spending review (“ Proposte per la revisione della spesa pubblica 2014/2016 ”, pag .71) di Carlo Cottarelli, commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica. Con le ultime modifiche al decreto legge, al contrario, queste sedi vengono mantenute.

> Ma qual è il loro costo?

Domanda di non facile risposta. Abbiamo chiesto direttamente all’ufficio stampa della Rai, ma le cifre non ci sono state fornite perché si «tratterrebbe di un’informazione sensibile che favorirebbe la concorrenza». Antonella Piperno su Panorama, nel febbraio scorso, ha fatti i conti in tasca a queste strutture:

Sono oltre duemila i dipendenti insediati nelle 17 sedi e nei quattro centri di produzione Rai di Milano, Napoli, Torino e Roma. Cui si aggiungono altre tre redazioni: quella in sloveno della sede triestina e quelle tedesca e ladina a Bolzano. Totale della spesa annua: circa 400 milioni di euro.

Oltre al costo, Piperno nel pezzo racconta anche di continui sprechi:

A Firenze ogni dipendente ha a disposizione 140 metri quadri, la sede di Bari ha otto piani per un centinaio di dipendenti in tutto, a Genova i piani sono addirittura 12 e a Venezia si lavora tra gli affreschi del Tiepolo a palazzo Labia, che la Rai non riesce a vendere.

A questi sperperi, nell’articolo, si aggiungono anche interessi politici locali che condizionerebbero il servizio pubblico prodotto nelle sedi regionali. Al riguardo, Giancarlo Magni, ex vice capo redattore del tgr Toscana, in un articolo su Formiche.net, elencando le anomalie della Rai, scrive che «le sedi regionali sono, anche inconsciamente, una longa manus del potere politico locale».

Tutte criticità evidenziate anche da Milena Gabanelli in una lettera pubblicata a fine 2013 sulle pagine del Corriere della sera. La giornalista di Report si domandava quale fosse l’utilità di questi sedi, se i tre tg regionali producono al giorno “servizi su sagre”, “su assessori che inaugurano mostre” e “qualche fatto di cronaca”: «Perché non cominciare a razionalizzare?». Ne era nato un botta e risposta con l’Usigrai, in cui il sindacato dei giornalisti Rai aveva sia contestato numeri e considerazioni riportate dalla Gabanelli, sia confermato che «alcuni immobili sono sovradimensionati».

Taglio di 150 milioni di euro: legittimo o no?

Nel decreto restano confermati i soldi che la Rai deve dare. Sulla regolarità del taglio ci sono però pareri discordanti. Per Vittorio Di Trapani, segretario nazionale dell’Usigrai, si tratta di un provvedimento che oltre «a mettere in grave difficoltà i conti economici della Rai», è anche illegittimo : «La stessa cosa è stata confermata di recente dall’Ebu (l’associazione dei servizi pubblici europei) che ha scritto al presidente della Repubblica Napolitano , dicendo che un taglio così fatto mette a repentaglio la libertà e l’indipendenza del Servizio Pubblico».

Illegittimità che Alessandro Pace, ex presidente dell’associazione italiana dei costituzionalisti, a cui il sindacato ha chiesto un parere tecnico , ha spiegato essere dovuta al fatto che si tratta di un “appropriazione indebita” perché i 150 milioni da versare arriverebbero dal canone che «ai sensi della legislazione vigente (…) «deve essere attribuito per intero alla concessionaria del servizio pubblico» e che «il titolo giuridico di trasferimento alla Rai è costituito da un’imposta di scopo».

In un’intervista al Fatto Quotidiano , Angelo Guglielmi, ex direttore di Raitre, ha definito invece «irrilevante» il taglio richiesto dal governo Renzi definendo ingiustificato lo sciopero dell’11 giugno scorso (con partecipazione al 75%, dati dei promotori) fatto dai dipendenti Rai: «si dimostra che la Rai teme di saper stare sul mercato».

Se si vuole partire dai tagli, bisogna ricordare che in questi anni sono comunque stati fatti . Nel 2012 la Rai ha chiuso il bilancio in rosso di 240 milioni di euro. Quello del 2013, grazie a notevoli riduzioni di costi, ha registrato un utile netto di 5 milioni di euro .

Sul tema è intervenuta anche la Presidente della Rai, Anna Maria Tarantola: «Abbiamo risparmiato 85 milioni in un anno. Ridotto i compensi delle star del 10-20% man mano che i contratti andavano in scadenza. Abbiamo avviato una procedura per razionalizzare le sedi regionali e per la vendita degli immobili». Tarantola ha inoltre sottolineato che la cifra chiesta dal governo Renzi inciderà pesantemente sul bilancio. Ecco perché per la presidente della Rai se si vuole lavorare a un «cambiamento radicale» della Rai «è necessario intervenire su missione, governance, canone».

Ma come funziona la Rai?

La Rai, concessionaria del servizio pubblico e radiotelevisivo, è una società per azioni (come stabilito nello Statuto ) controllata per il 99,56% dal ministero dell’Economia e per il restante 0,44% dalla SIAE. La legge Gasparri (2004) e il testo unico della Radiotelevisione (2005) ne stabiliscono funzionamento e compiti.

> Finanziamento misto

> Governance

Il Consiglio di amministrazione è composto da 9 membri che durano in carica 3 anni. La nomina dei consiglieri, dopo la legge Gasparri, si svolge in questo modo: il Parlamento tramite la Commissione parlamentare di Vigilanza sceglie 7 membri. Il governo – tramite il ministero dell’Economia – ne sceglie un altro più il Presidente. Il direttore generale, in carica per 3 anni, viene votato dal consiglio di amministrazione dopo la nomina del ministero del Tesoro. Il cda decide anche i direttori di rete e i direttori dei telegiornali. Un meccanismo di lottizzazione che porta la politica al dominio degli organi direttivi della Rai, attraverso spartizioni (tra maggioranza e opposizione) e nomine.

> Contratto di servizio

È un accordo che la Rai e il ministero del Tesoro rinnovano ogni 3 anni. Individua i compiti necessari della società concessionaria per svolgere il servizio pubblico. Ma proprio sulle firma del Ministero del Tesoro sono nate delle riserve. Nel 1975, infatti, la legge n.103 , sancì il passaggio del controllo del servizio pubblico dal governo al Parlamento in nome dell’indipendenza, l’obiettività e il pluralismo. Proprio per questo motivo, Gilberto Squizzato, ex giornalista Rai, nel suo libro La tv che non c’è. Come e perché riformare la Rai (2010) si domanda cosa c’entri la firma del ministro, espressione di controllo del governo.

«Se per caso – sottolinea Squizzato – il contratto di Servizio fosse disatteso dalla Rai anche per una sola delle voci (elencate dal contratto stesso) chi dovrebbe risponderne? Il suo presidente? Il consiglio di amministrazione? Il direttore generale? I direttori di testata? Oppure bisognerebbe rescinderlo e magari affidare il servizio pubblico radiotelevisivo a un’altra emittente?»

> Codice etico

Se il Contratto di Servizio stabilisce, come scrive sempre Squizzato, la varietà merceologica che la Rai deve fornire al pubblico pagante, è la Rai stessa, e qui siamo al paradosso, che con un proprio Codice Etico ( Documento approvato dal Cda che rappresenta i valori in cui il gruppo Rai si riconosce), stabilisce da sé le proprie finalità.«Insomma la Rai si dà i compiti e si controlla se stessa».

Tra l’altro, e questo è uno dei punti deboli, il Codice afferma che il pluralismo «deve avere riscontro nei singoli programmi». «È facile verificare l’impraticabilità, e dunque l’assurdità, di questa prescrizione: com’è possibile, in tutti i singoli programmi applicare il pluralismo (dalla partita di calcio al settimanale giornalistico, alla fiction alla trasmissione scientifica). L’unico pluralismo effettivamente realizzabile è quello che si manifesta nell’articolazione di un palinsesto vario e completo e con la diversità di voci, culture, orientamenti che vi si esprimono», commenta Squizzato.

> Organico

Al 31 dicembre 2012 l’organico Rai in totale è di 13.158 persone. Con un costo per il lavoro subordinato pari a 1 miliardo di euro.

Dai dati forniti da Gubitosi nell’ audizione in vigilanza Rai del giugno 2013 emergono le retribuzioni dei dirigenti e dei giornalisti dirigenti. Ai primi in media va un compenso annuo di 155.000 euro, mentre ai secondi di 147 mila euro. Con i massimi che raggiungono i 500.000 euro e i minimi 100.000. Ma quali sono i criteri di assunzione in Rai? Sempre secondo i dati di Squizzato solo il 20% del personale è assunto con concorso. La pratica della chiamata diretta continua a verificarsi: uno degli ultimi casi è quello delle 35 assunzioni dal bacino della scuola di Perugia fatte dalla Rai la scorsa estate. Come anche quella della segnalazione politica, definita come uno dei problemi maggiori della Rai da parte del dg Gubitosi, in una audizione in vigilanza Rai nel giugno scorso (pag. 10):

(…) i progressi di carriera non sono stati determinati, per troppi anni, da competenza e merito, ma, al contrario, hanno subìto spesso influenze esterne. (…) Per lunghissimo tempo (…) le nomine, non solo quelle apicali, ma spesso anche quelle intermedie, sono state, in molte occasioni, decise sulla base di criteri di appartenenza e fedeltà. Questo comporta che nel tempo sia stata minata una cultura aziendale basata sui valori comuni delle persone, valori di crescita, di competenza, di merito (…).
Anche la modalità dei contratti firmati dalla Rai ha creato negli anni continui problemi e spese legali. Nel 2010 Sergio Rizzo scriveva sul Corriere della sera che le cause di lavoro aperte dalla Rai «erano ben 1.309, a fronte di 13.313 dipendenti in tutto il gruppo». Un contenzioso legale che nel 2011 ebbe «un costo complessivo di 105 milioni di euro», scriveva Giovanni Florio, su Lettera43 un anno fa.

Il servizio pubblico in Europa: modelli a confronto

Anche se il canone italiano non è tra i più alti in Europa, molto cittadini non lo pagano. «Registriamo un’elevata evasione di oltre il 26% – spiegava in Vigilanza nel giugno scorso la presidente Rai, Tarantola – contro medie di altri Paesi che vanno dal 5% al massimo al 10%». Fenomeno che «determina un mancato introito di circa 500-600 milioni annui, riducendo le possibilità di investimento in prodotto e in tecnologia». Partendo da un focus del 2010, intitolato Il servizio pubblico, pluralismo, democrazia, media a cura della “Fondazione per la sussidarietà”, è possibile provare a comparare i sistemi di finanziamenti, nomine e controllo di alcune delle più importanti tv europee di servizio pubblico con il nostro:

France Télévision – Francia

Finanziamento: Misto, canone + pubblicità.

Nomine: C’è un consiglio di amministrazione che dura in carica 5 anni ed è composto da un Presidente più 14 membri: due parlamentari designati da commissioni incaricate degli affari culturali dell’assemblea nazionale e del senato, cinque rappresentanti dello Stato, cinque indipendenti, nominati dal Conceil superieur de l’audiovisuel, due rappresentanti del personale.

Controllo: Lo Stato detiene la totalità del capitale. L’incarico di regolare e vigilare è affidato a una autorità amministrativa indipendente, i cui 9 membri sono nominati con decreto del presidente della Repubblica.

ZDF – Germania

Finanziamento: Misto, canone + pubblicità. Nomine: Il direttore generale è eletto dal consiglio la cui composizione deriva dai “gruppi socialmente rilevanti” menzionati nel trattato della ZDF. Controllo: Il servizio pubblico è completamente indipendente e autonomo, tanto che nel 2007, il Cda delle emittenti pubbliche ha citato in giudizio gli Stati federati per indebita ingerenza. E il ricorso è stato accettato dalla Corte Suprema.

RTVE – Spagna

Finanziamento: Misto, finanziamento pubblico e tassa sugli operatori privati di tv e telefonia (canone abolito poco dopo la fondazione nel 1956). Nomine: Il consiglio di amministrazione che dura in carica 6 anni gestisce l’amministrazione della società. A capo c’è il presidente, affiancato da nove membri. Questi sono scelti dal Parlamento. Il Congreso de Los Disputados nomina tra i nove consiglieri un presidente che ricopre sia il ruolo di presidente della società che quello di presidente del Consiglio di amministrazione. Controllo: Una legge del 2006 (la n.17) parla della creazione dei Consigli dei media: «organi interni con la partecipazione dei professionisti dei media della RTVE, progettati per salvaguardare l’indipendenza, l’obiettività, e la verità delle informazioni diffuse».

BBC – Gran Bretagna

Finanziamento: Esclusivo, solo da canone. BBC World News solo da pubblicità. Nomine: Il Bbc Trust definisce le strategie dell’emittente, è un executive board ed è responsabile della gestione operativa. Per garantire i diritti dei telespettatori è stata creata la ‘Royal Charter’, che contiene le linee guida del servizio pubblico. Il documento viene rinnovato ogni dieci anni. Controllo: Sono due le autorità a cui è soggetta la BBC. La BSC si occupa di vigilare sul trattamento della privacy. Ofcom è l’ente regolatorio per il settore delle comunicazioni nell’UK, il cui board definisce la direzione strategica della BBC.

Rai: quale servizio pubblico?

La richiesta del governo Renzi ha posto al centro del dibattito la questione della Rai e del servizio pubblico in generale (di riforma della tv di Stato si parlò anche durante il Governo Monti, ma poi non si fece nulla). Discussione segnata anche dal prossimo rinnovo della concessione di sevizio pubblico che scade nel 2016. «Riforma del canone, anticipazione del percorso della concessione, trasformazione e innovazione della Rai sono gli obiettivi da raggiungere entro il 2014», ha promesso Antonello Giacomelli, sottosegretario alla Comunicazioni. Una riforma richiesta da più parti, sia interne che esterne all’azienda, che abbia la finalità di rinnovare missione e governance e che riesca a togliere il servizio pubblico dalle mani della politica. Uno dei modelli a cui ispirarsi, secondo alcuni, è quello della britannica BBC, uno dei servizi pubblici televisivi più grandi e noti al mondo. Un modello a cui guardare anche per quanto riguarda la trasparenza dei dati. «La Rai si è sempre rifiutata di rendere pubblici i compensi dei conduttori e dei propri giornalisti – scrive Roberto Perotti su Lavoce.info in un ebook in cui compara il servizio pubblico italiano con quello inglese – La BBC pubblica i compensi e i nomi del senior management più importante, e i compensi di tutto il senior management per fasce di reddito di 5.000 sterline. Inoltre, (…) anche le remunerazioni dei conduttori e degli artisti, per fasce».

Proprio grazie alla trasparenza potrebbero essere rivisti appalti, consulenze, collaborazioni e produzioni esterne. Aspetti del servizio pubblico in cui il potere e l’influenza della politica son ben radicati e di soldi ne girano tanti. Lo scorso luglio Carlo Tecce, sul Fatto quotidiano , visionando «un documento segreto consegnato da Gubitosi alla Vigilanza Rai», riportava la cifra di 2 miliardi di euro all’anno per gli appalti concessi dal servizio pubblico. Una maggiore trasparenza aiuterebbe a comprendere meglio quali sono i criteri che guidano queste assegnazioni, come ad esempio il fenonemo dei « soldi per le fiction alle aziende dei “figli di” ». Interessante al riguardo è il botta e risposta, nell’audizione del giugno 2013 in vigilanza, tra il dg Rai e Alberto Airola, parlamentare 5 stelle e membro della commissione. Nel suo intervento Airola domanda al manager di rendere pubblici tutta una serie di dati (albo fornitori RAI, l’ammontare degli appalti e le gare, i criteri di assegnazione, i bandi, ecc) «nel rispetto della trasparenza alla quale il servizio di Tv pubblico è tenuto». Nella risposta Gubitosi invita il senatore 5 stelle a mandare una mail «con il dettaglio delle domande» a cui la Rai avrebbe risposto. A un anno di distanza, abbiamo chiesto ad Airola se i dati fossero arrivati: «No, il direttore generale non ha mai risposto ai miei quesiti».

Il lavoro da fare, quindi, secondo Luigi De Siervo, alla guida dell’Adrai (Associazione dirigenti Rai) intervistato da Il Foglio è: «una progressiva indipendenza dalla politica, una riformulazione delle carriere, un’analisi della missione del servizio pubblico e una riqualificazione del personale». Questo per capire che tipo di servizio pubblico si vuole: «Come si può accettare – domanda infatti De Siervo – che una serie come Gomorra sia prodotta da Sky, e non da noi?».

Fonte: Il Piccolo. Servizio di Andrea Zitelli

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Sole 24 Ore 7/06/2014
Da broadcaster a media company
L’analisi di Carlo Rognoni

Fra Rai e governo non corre buon sangue. I 150 milioni sottratti al canone hanno creato un muro d’incomprensione. Eppure “la sfida” dei prossimi mesi è ben più strategica e trascende questo episodio: rinnovare la Convenzione del servizio pubblico. È qui che si gioca anche il futuro del Sistema Italia delle comunicazioni.
Che cosa ha in mente il governo? Alcuni passi sono già stati fatti: la nuova Convenzione Stato – Rai non verrà messa a gara. Di più: il governo ha deciso di impegnarsi in una grande consultazione aperta, giusto per definire i confini e la missione della Rai nell’epoca della rivoluzione digitale e di internet. E – parola del nuovo sottosegretario alle Comunicazioni – la Convenzione verrà rinnovata entro il 2014, ben prima della scadenza di legge (maggio 2016). Alla fine di quest’anno sarà pronta anche la legge di riforma del sistema. Già, ma su quali idee forti verranno impostate le linee guida propedeutiche alla consultazione? Chiarito che «rinnovare» non può voler dire giocare al ribasso, l’obiettivo si annuncia ambizioso: trasformare la Rai da broadcaster a media company, rifondare la Rai facendone un protagonista dell’epoca digitale. Per cercare di capire a che tipo di Rai pensa il governo cominciamo a rileggere due documenti. Il primo è quello che Renzi e i suoi amici hanno detto negli interventi alla Leopolda. Il secondo sta nelle carte del “Forum per la riforma radiotelevisiva” del Pd. Al centro c’è il cambiamento della Gasparri, là dove affida ai partiti il consiglio di amministrazione. Renzi è stato chiarissimo a Trento: fuori i partiti dalla Rai. La governance della Tv pubblica deve cambiare. Come? Per esempio – si è scritto nelle carte della Leopolda – affidando la nomina di un amministratore delegato (e di un comitato esecutivo composto da manager) a un “Comitato Strategico” che a sua volta è scelto dal Presidente della Repubblica. Anche nella documentazione del Pd si parla di un amministratore delegato con ampi poteri proprio al fine di evitare che i partiti condizionino tutte le scelte editoriali e no. Se poi non si vuole coinvolgere il presidente della Repubblica, si può tornare a pensare a una Fondazione a cui affidare le azioni oggi del Tesoro. Oppure si può pensare a un sistema duale: un consiglio di sorveglianza con una larga rappresentanza di pezzi di società che nomina un comitato di tre amministratori di cui uno è l’amministratore delegato vero e proprio. È dalla consultazione pubblica che potranno emergere altre ipotesi.
Nell’immaginare oggi la riforma del servizio pubblico, si dovrà tener conto anche di altre priorità. La separazione fra Rai “operatore di rete” e Rai “fornitore di contenuti”, per esempio, è o no strategica? Potrebbe portare alla nascita di un grande operatore di rete prevalentemente pubblico, a cui affidare il trasporto dei segnali audio e video. Lavorerebbe anche per altri soggetti imprenditoriali interessati all’offerta audiovisiva. Per esempio le telco e le tv locali. Insomma l’idea di andare in Borsa con Raiway – che oggi sembra una soluzione per fare cassa e compensare la perdita dei 150 milioni di euro sottratti quest’anno al canone – potrebbe diventare una scelta strutturale, nell’interesse non solo della Rai ma del sistema Paese. È quello che hanno fatto in Europa tanti altri servizi pubblici.
E poi? Come intervenire nella riorganizzazione interna del servizio pubblico? Il Forum del Pd ha proposto una prima “Rai modello Bbc” senza pubblicità che conta quasi esclusivamente sulla risorsa del canone. Potrebbe gestire una rete generalista più una serie di reti di nicchia chiaramente da servizio pubblico, in grado di garantire un’offerta editoriale di qualità. A fianco di questa “Rai servizio pubblico” una “Rai commerciale” – modello Channel 4 – che si regge su affollamenti pubblicitari pari alle altre tv private nazionali. A questo ramo di azienda verrebbe affidata la gestione anche di altre reti di nicchia come oggi il sistema digitale consente. Con una missione: dare spazio alle produzioni e alla creatività nazionale. Non dimentichiamo che farsi carico del rilancio del mercato dell’audiovisivo italiano – oggi cenerentola in Europa – è un compito che va nella giusta direzione della ripresa generale dell’economia. Uno dei punti più innovativi della riforma ipotizzata era che “la Rai commerciale” non potesse cannibalizzare “la Rai servizio pubblico”. Se gli ascolti del servizio pubblico – per esempio – fossero penalizzati dalle reti pubbliche commerciali della Rai ecco che scatterebbe un meccanismo riequilibratore: l’anno successivo vengono ridotti gli affollamenti, in modo tale da scoraggiare la Rai commerciale dal sottrarre programmi di successo alla prima Rai. Nei testi della Leopolda si legge: cambiare la Rai per creare concorrenza sul mercato tv e rilanciare il Servizio Pubblico. Già! Ma come? Oggi la Rai ha 15 canali, dei quali solo 8 hanno una valenza “pubblica”. Questi vanno finanziati esclusivamente attraverso il canone. «Gli altri devono essere da subito finanziati esclusivamente con la pubblicità, con affollamenti pari a quelli delle reti private». In quella sede fu anche detto – diversamente da quanto sosteneva il Pd – che questi canali successivamente potevano essere privatizzati. Ora conoscendo Renzi un po’ meglio e un po’ di più di quando conduceva la Leopolda, non c’è dubbio che vorrà cambiare il canone, una delle tasse oggi più odiate dagli italiani (ha un tasso di evasione del 30%). A Firenze si era sentito dire: «il canone va formulato come imposta sul possesso del televisore (esattamente quello che è oggi), rivalutato su standard europei e riscosso dall’Agenzia delle Entrate». E poi: «La Rai deve poter contare su risorse certe, in base a un nuovo Contratto di Servizio con lo Stato». Per il Pd la strada era quella della fiscalità generale che per altro consente di ridurre il canone a chi ha poco e far pagare di più a chi ha di più. Anche su questo punto la consultazione potrebbe orientare le scelte del governo.
Che cosa c’è di nuovo e di diverso oggi rispetto ai tempi della Leopolda e ai tempi del Forum del Pd? Che Renzi è al governo e che il Pd è il primo partito della maggioranza che lo sostiene. Ebbene non c’è dubbio che questo tipo di riforma storica vada prima discussa, soprattutto vada largamente condivisa. Se si vuole concludere il grande dibattito pubblico entro quest’anno, per contare su una legge pronta all’inizio del 2015, prima della scadenza dell’attuale consiglio di amministrazione della Rai, il tempo stringe. Sono sicuro che ampi margini di manovra per i cambiamenti ipotizzati potrebbero essere affidati sul piano operativo – dopo che il parlamento ha fissato i criteri portanti della nuova Rai – anche al nuovo gruppo dirigente, sollevato dai vincoli della peggior partitocrazia. Il governo Renzi ha in mano un’occasione straordinaria: quella di poter dimostrare che la politica sa anche avere pensieri lunghi, sa pensare in grande, sa rilanciare un bene comune decisivo per la qualità stessa della democrazia.

 

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Repubblica 4/06/2014
L’intervista/Antonio Pilati, del cda Rai
Sono d’accordo con una iniziativa che permetta alla Rai di accelerare sulla via del cambiamento

«Chiudersi a riccio di fronte al cambiamento non è mai una buona strategia, la televisione pubblica deve essere modernizzata».
Antonio Pilati – consigliere d’amministrazione Rai nominato in quota berlusconiana e già estensore della legge Gasparri – si schiera a favore della battaglia per il rinnovamento della tv di Stato aperta dal governo. «La Rai – spiega – è un’azienda ferma da 20-25 anni che patisce un carico di sovrapposizioni, sprechi e di cose che non funzionano attribuibili essenzialmente al rapporto con il mondo politico».
Cosa pensa dello sciopero contro il taglio da 150 milioni voluto da Renzi? «Lo considero un errore, in questo momento c’è da capire come rilanciare e rendere competitiva l’azienda in un quadro molto diverso rispetto a quello in cui si è creata l’impostazione che ha deciso questo sciopero». È d’accordo con la sforbiciata del governo? «Avere un bilancio tagliato a metà anno non è piacevole per nessun amministratore, ma ha anche un risvolto positivo: è una misura che fa capire che la Rai è arrivata ad un punto di svolta, che non può più andare avanti come prima, che deve ripensarsi radicalmente perché altrimenti si marginalizza in un mondo in cui la concorrenza è sempre più dura e il cambiamento della tecnologia fa evolvere la domanda in tempi sempre più rapidi».
Dunque lei, che è stato eletto nel cda con i voti del centrodestra, è d’accordo con Renzi? «Sono d’accordo con una iniziativa che permetta alla Rai di accelerare sulla via del cambiamento». Come sta oggi la Rai? «Negli ultimi 7-8 anni c’è stata una dinamica pericolosa, sono stati ridotti gli investimenti nella produzione audiovisiva, nella tecnologiae nella manutenzione delle sedi che in alcuni casi sono addirittura sotto gli standard.
A fronte di questa stasi – pericolosa perché un’azienda che non investe muore – c’è stato un incremento della spesa corrente soprattutto per gli stipendi, che sono arrivati al miliardo, circa il 36% dei ricavi. Il Consiglio di cui faccio parte ha agito per invertire il trend. Ora c’è una congiuntura politica che – con le parole spesso brutali di Renzi – ci dice che il percorso intrapreso dal cda deve essere accelerato, che il rinnovamento deve essere più rapido».
Quali sono i problemi più gravi da affrontare? «Si spende troppo per il lavoro quando poi c’è una enorme quantità di appalti esterni che impoveriscono il servizio pubblico. Bisogna tornare a spendere sul prodotto e investire in tecnologia. Bisogna concentrarsi sulla produzione audiovisiva, un’industria nazionale che fornisce identità collettiva e che ha nella Rai il principale finanziatore. E poi non si può investire concentrandosi solo su pochi nomi, serve un’industria con una pluralità di soggetti. Si deve lavorare anche sulla coltivazione della memoria, abbiamo uno straordinario archivio, ci sono le teche, abbiamo Rai Educational che va rinforzata. Infine ci sono le decisioni che deve prendere la politica, come quella sul modo in cui può funzionare il modello di servizio pubblico oggi: forse non è più il tempo di un ibrido che tiene insieme i caratteri commerciali e culturali come quello attuale».
Come reperire i soldi per gli investimenti? «Le risorse possono essere trovate razionalizzando i sistemi produttivi, con meno procedure e lacci amministrativi che oggi vincolano la Rai, tagliando gli appalti esterni e riportando dentro l’azienda il controllo del prodotto. Per rispondere alla sfida dei tempi bisogna cambiare».

 

L Unita 04/06/2014
«Viale Mazzini? Ormai ha perso lo specifico di servizio pubblico»

Per lui la Rai è fatta di dati sull’audience dei e di palinsesti: non certo dei numeri del bilancio. «Di quello so pochissimo», ammette Francesco Siliato, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e di Cultura dei Media al Politecnico di Milano. Ma da quando si è saputo che fa parte di un gruppo di 9 saggi chiamati dal governo a fare il punto sulla situazione del servizio pubblico, il braccio di ferro tra dipendenti e governo ha fatto irruzione nella sua vita quotidiana: telefoni bollenti. Professore, come giudica questa situazione in cui Rai e governo sembrano confrontarsi in un muro contro muro? «Mi viene da dire che in questo momento la Rai non gode di una buona immagine. Negli anni ha avuto un atteggiamento sui contenuti che non la mette in buona luce nei confronti dei cittadini. Diciamo che ha perso il suo aplomb, ammesso che lo abbia mai avuto visto che storicamente il servizio pubblico è stato legato alla politica. Così la dichiarazione di sciopero suona un po’ come se scioperassero i calciatori. Milionari che incrociano le braccia. Al di là degli stipendi, poi, c’è un quadro in cui si è persa credibilità». Be’, milionari. Questo può essere vero per pochi, non certo per la maggior parte dei dipendenti. «Mi spiego meglio: non ho alcuna idea di quanto guadagnino i dipendenti, ma l’immagine che si ricava è quella. Negli anni si è costruito il luogo comune per cui i conduttori guadagnano molto, e i cittadini non fanno distinzioni. Si è anche sollevato in passato il tema della trasparenza sulle retribuzioni, e non so come sia stato risolto. In ogni caso tutto questo oggi pesa sull’immagine della Rai». Lei dice che la Rai ha perso credibilità sui contenuti: ma se lo ha fatto è stato in nome di una rincorsa con Mediaset sull’audience. C’era chi teorizzava questo in passato. «La rincorsa non è mai stata sull’audience: la Rai è sempre stata al primo posto. E lo è ancora oggi. E neanche sui contenuti: è stata Mediaset a rincorrere e a imitare la Rai. Mediaset ha sottratto alla Rai personaggi come Mike Bongiorno e altri, inserendoli nei suoi ranghi». Allora su cosa ha sbagliato la Rai? «È nel dispiegamento del palinsesto che la Rai non si distingue, perché si è adeguata a una logica commerciale dei prodotti. Questo è tanto vero, che un prodotto potrebbe passare indifferentemente da Rai a altre emittenti, senza subire cambiamenti, perché sono tutte commerciali. La Rai ha perso lo specifico di servizio pubblico». Chi chiede alla Rai di autofinanziarsi, però, indica esattamente questa strada. «Difatti, nel momento in cui non c’è il canone, non c’è neanche il servizio pubblico. Ma nessuno sta chiedendo questo. Quello su cui si ragiona in questo momento è, ad esempio, se è il caso di mantenere tre reti con una contabilità separata, o se si devono unificare, o magari unificarne due e una lasciarla commerciale. Ma qui resta il problema di come differenziare una rete Rai commerciale dalle altre. Per lo più sono i pubblicitari che chiedono una rete commerciale. In ogni caso ancora non c’è una decisione». È di questo che si occupa la commissione di cui fa parte? «Non esattamente. Il gruppo di esperti di cui faccio parte è una commissione del tutto informale, chiamata a dare una consulenza (di carattere gratuito) sullo stato dell’arte. Ciascun esperto fornirà al governo la sua analisi della situazione. Nulla di più». Ma non ci sono appuntamenti in vista? «Per ora si sta decidendo se anticipare le consultazioni per il rinnovo della convenzione tra lo Stato e la Rai, che scade a maggio del 2016. Il rinnovo richiede tempo: bisogna aprire la consultazione, esaminare le osservazioni e decidere la strada da imboccare. La convenzione precedente è ventennale, ma oggi è molto difficile immaginare l’evoluzione di un mercato come questo per 20 anni. Qui si tratta di tutto il settore dell’audivisivo che è in forte evoluzione». Non crede che tagliare il bilancio senza ristrutturare avvantaggi i competitor della Rai? «Non credo che i tagli proposti siano c o s ì p e s a n t i d a a r r e c a r e d a n n o all’azienda. Quello che la Rai deve fare per reagire è investire nei nuovi mercat i p e r t r a i n a r e l ‘ i n d u s t r i a i t a l i a n a dell’audiovisivo. Questo è il compito del servizio pubblico: trainare un settore industriale». La Rai è sempre stata in vantaggio sull’audience, ma non sulla pubblicità. Non ci sono criteri di mercato… «Per legge la Rai ha dei tetti pubblicitari. È chiaro che siamo in un mercato viziato».

 

Il Messaggero 04/06/2014
Tv pubblica i vantaggi della ricetta all’inglese

L’annuncio del premier Matteo Renzi di voler tagliare i costi della Pubblica amministrazione ha suscitato sentimenti opposti. Da un lato preoccupazione per le conseguenze sociali che ne deriverebbero; dall’altro la speranza che non ci si limiti al mero taglio dei costi in eccesso, ma che si approfitti della circostanza per imboccare un percorso virtuoso di semplificazione amministrava e di introduzione nel nostro Paese quei criteri di efficienza che puntino non tanto sulle procedure quanto sui risultati e sulla verifica della qualità degli attori che li debbono raggiungere, come è tipico dei Paesi anglosassoni che tanto invidiamo. Nazioni ben diverse da quelle a derivazione statualistica romano-germanica, dominate da un diritto amministrativo che nella maggioranza dei casi non è liberatorio dei soprusi dello Stato nei confronti dei cittadini, ma asfissiante e troppo pervasivo. La Rai è un’impresa culturale complessa, che sta a metà tra mercato, quasi mercato e non più monopolio; che però ha su di sé le stigmate di un controllo non dei suoi risultati ma delle sue stesse procedure di scelta dei contenuti che altro non sono che un esempio preclaro di ciò che chiamiamo il passaggio dallo Stato amministrativo allo Stato dei partiti. È paradossale che il controllo sulla Rai venga esercitato da un corpo politico, ossia da un segmento della rappresentanza popolare che si riflette immediatamente sulla composizione non solo della direzione, ma addirittura del suo personale e dei suoi contenuti. Continua a pag. 22 segue dalla prima pagina Sino a giungere alle stesse reti che sono il frutto di una lottizzazione che ancora resiste anche se i lottizzatori di un tempo sono scomparsi. Ma le subculture rimangono. Sicché lo spauracchio rappresentato dal fatto che non si deve cambiare per non rafforzare i poli privati e in primis Mediaset, ha reso impossibile ogni ipotesi di riforma degna di questo nome. La Rai è una grande azienda produttrice di cultura, che deve essere riordinata nei suoi processi e nei suoi prodotti per raggiungere una più grande – non più piccola – potenza radiante, così da divenire una vera e propria interlocutrice dei global player mediatici a livello mondiale. Per arrivare a ciò è probabilmente necessaria una semplificazione che porti a una sola rete, di grande peso e rilevanza culturale e che ritorni a ciò che di meglio veniva prodotto nell’era Bernabei, ossia nella Rai pedagogica che ha accompagnato la crescita di tanti italiani. E nello stesso tempo, questa Rai dovrebbe interpretare il meglio dello straordinario cambiamento intervento negli ultimi vent’anni, vale a dire l’emergere della diversità culturali antropologiche prepolitiche piuttosto che politiche. Paradossalmente ci vorrebbe più Rai, non meno Rai. Ma una Rai che avanzi sul terreno delle nuove tecnologie e soprattutto dei contenuti glocal anziché della cronaca mondana, non può che proporre rubriche e forme di spettacolo senza più la centralità ispirata che ora ci viene somministrata: su questo terreno la britannica Bbc, sebbene anch’essa in fase di parziale ripensamento, ha qualcosa da insegnarci. La privatizzazione di una rete non è però condizione sufficiente per avviare questo cammino di rinnovamento. Abbiamo bisogno di più reti e non di meno reti, ma non tutte con il proprio telegiornale o le stesse rubriche che declinano ideologicamente contenuti simili. Abbiamo bisogno del confronto delle idee separando i fatti dalle opinioni e poi di reti diversificate per contenuti. Dobbiamo abbandonare il modello dei vecchi consigli di amministrazione che inevitabilmente verrebbero, quando più e quando meno, lottizzati secondo il frusto manuale Cencelli. Meglio dunque la figura civilistica del trust guidato da un amministratore unico: un officer responsabile dell’azione generale che risponda a un advisory board formato da persone competenti nei settori in cui si vogliono articolare le divisioni contenutistiche di questa grande impresa culturale che sarà la nuova Rai. Oltre che ai contenuti, dobbiamo cominciare a guardare con maggiore partecipazione ai risultati economici, prestando nessuna attenzione alle polemiche sterili, dentro e fuori l’azienda. Una Rai siffatta non può che guadagnare di più, non solo grazie al canone ma anche in virtù di una pubblicità che in essa troverebbe più ragioni per investire in modo maturo e con ritorni più sicuri. Insomma, una Rai così concepita può solo valorizzare e non mortificare il lavoro e le capacità delle immense risorse creative di cui noi italiani siamo capaci.

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04/06/2014

Rai: Tarantola, intervenire su governance e canone. Non svenderemo Raiway. Processo di cambiamento è faticoso e la presenza di interessi meta-aziendali non aiuta

Rai: Il taglio di 150 milioni riguardera’ solo l’anno 2014. Lo annuncia il senatore del Pd Fornaro, membro della commissione Vigilanza Rai

Il dl Irpef determina impatti rilevanti per Rai. Lo dice Annamaria Tarantola

Il sindacato deve fare il suo dovere riguardo lo sciopero Rai: Camusso

Rai, via libera ai tagli per 150 milioni – LaStampa.it

“Siamo pronti a incontrare giornalisti e sindacati” dice Matteo Salvini (Lega Nord) sulla vicenda Rai

Rai: Mentana, stop a pretese corporative. Nuova mission per le reti pubbliche, finita era tv generalista

Lo sciopero della Rai non è illegittimo. Lo dice Angeletti

 

03/06/2014
Rai, di tutto di più. Soprattutto negli sprechi. 12mila dipendenti, la concorrenza ne ha un terzo...
Rai: ok dalle commissioni Bilancio e Finanze del Senato al taglio di 150 milioni 
La Rai difende lo status quo. Lo dice Salvatore Tomaselli, senatore del Pd 
Fico convoca il cda della Rai. Serve una riforma del canone volta al risparmio
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Lo sciopero Rai dell’11 giugno non rispetta le regole. Lo dice l’Autorità di garanzia
Ok alla cessione di quote di Rai Way, lo dice un emendamento dei relatori al decreto Irpef 
La Rai esclusa dai tagli a carico delle società partecipate dallo Stato
Camusso: “Avanti con lo sciopero Rai, il dl mette a rischio l’azienda”
Come è cambiata la tv negli ultimi dieci anni? Se ne discute oggi al convegno dell’Adprai 
“Renzi tenta di svendere i ponti Rai. Lo sciopero dei dipendenti è giusto” dice Fico