Cresce tra i giornalisti l’ansia da crediti per la formazione continua e divampano pure le polemiche per la confusione del meccanismo. Ecco la testimonianza di una professionista come Angela Bianchi, cronista parlamentare della Rai.
Si avvicina la fine dell’anno e tra i giornalisti è scattata l’ansia da conquista dei crediti che certificano la frequenza ai corsi d’aggiornamento professionale, diventati obbligatori in base al Dpr 137/2012. Ogni giornalista ne dovrebbe accumulare almeno 15 entro il 31 dicembre per poi arrivare a 60 nel triennio. Ma moltissimi sono ben lontani dal raggiungimento dell’obiettivo, anche a causa della difficoltà nell’accedere ai corsi. E pure chi li ha seguiti spesso non ne trova riscontro sulla ormai famosa piattaforma informatica nazionale a cui ci si deve registrare (http://sigef-odg1.lansystems.it:8080/sigef/). Se è vero che quest’ultimo problema dovrebbe essere risolto entro l’inizio della prossima primavera, su tutto il resto regna una grande confusione, montano le proteste e ci si chiede anche quale sia l’utilità del sistema di formazione continua proposto, come emerge dall’articolo di Angela Bianchi, cronista parlamentare della Rai, che segue.
Fortunatamente ci sono anche casi che si possono definire positivi, come quello della Gazzetta dello Sport dove Manlio Gasparotto del Cdr si è dato da fare e ha organizzato, in collaborazione con l’azienda e il Consiglio dell’Ordine lombardo, 12 ore di formazione su temi di sicuro interesse per la redazione del quotidiano, con l’intervento di esperti: diritti e doveri del giornalista che segue un’inchiesta giudiziaria e sportiva; diritto del lavoro (licenziamenti per giusta causa); valore del marketing sportivo; psicologia dello sport; il valore informativo e di mercato dello ‘scouting’ (i dati che vivisezionano un evento sportivo: tiri, passaggi, errori, eccetera); la lettura e la valutazione dei dati da parte dei tecnici. Unico rilievo, i giornalisti della ‘Gazza’ non sanno precisamente quanti crediti hanno accumulato.
Infine, il presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Enzo Iacopino, pur difendendo decisamente il principio della formazione continua, non si tira indietro nel riconoscere errori e distorsioni nella sua attuazione, come si può leggere nella risposta all’articolo di Sergio Rizzo, pubblicato il 30 novembre sul Corriere della Sera, e nell’intervento sul suo profilo Facebook.
Di Angela Bianchi, cronista parlamentare della Rai:
“Ma se non faccio il corso, che cosa mi possono fare?” A porre la domanda, nel bel mezzo di una cena, è Massimo Bordin, la cui rassegna stampa su Radio Radicale viene ascoltata dal superdirettore fino all’ultimo dei freelance: praticamente un mito parlante per chi mastica questo mestiere. Lui, come moltissimi altri, si dichiara a dir poco perplesso su questi ‘corsi formativi’ obbligatori per i giornalisti, cominciati quest’anno in applicazione alla legge Severino che ha riformato gli ordini professionali in ottemperanza a una direttiva europea. “Una cosa ridicola”, la definisce Bordin, “quasi una cretinata in termini di logica e di diritto: siamo gli unici lavoratori dipendenti a dover fare un corso di formazione a spese proprie e fuori dall’orario di lavoro”. Come dargli torto? A quel punto intorno al tavolo si apre il dibattito. E tutti i commensali, metà dei quali giornalisti alle prese con i punti-formazione (60 in tre anni), fanno notare che nessuno tra direttori, grandi firme ed editorialisti avrà tempo e voglia di mettersi a frequentare questi corsi, magari tenuti da loro redattori o ex colleghi pensionati. E cosa farà a quel punto l’Ordine nazionale, espellerà mezzo gotha del giornalismo italiano?
Facendo un rapido giro su internet scopro che la polemica ha ormai raggiunto i toni dello psicodramma. Con Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine nazionale, che difende strenuamente il principio della formazione ma ammette che è necessario rivedere la normativa (lo ha pure detto il 2 dicembre al ministro della Giustizia Andrea Orlando); l’Ordine regionale del Lazio che pone più di qualche dubbio chiedendo di cancellare l’obbligatorietà; il parlamentare democratico Michele Anzaldi, anch’egli giornalista, che dichiara di esser pronto a presentare un emendamento nel primo provvedimento attinente alla materia con lo scopo di cambiare tutta la normativa; e con Pino Pisicchio, presidente alla Camera del Gruppo misto, che annuncia di aver già depositato l’ennesima legge di riforma dell’Ordine dei giornalisti, chiesta peraltro dallo stesso Iacopino nell’incontro con il ministro della Giustizia.
Lo scontro è dunque al calor bianco. A dar fuoco alle polveri, il 27 novembre scorso, sono la segretaria dell’Ordine regionale del Lazio, Silvia Resta, e il responsabile della formazione, Carlo Picozza, che prendono carta e penna e scrivono un documento che così si conclude: “Forti dell’esperienza di questi mesi e consapevoli del malessere diffuso tra i giornalisti sull’obbligatorietà della formazione, indichiamo all’Ordine nazionale e, attraverso questo, al governo, la necessità di una revisione legislativa con un ripensamento dell’obbligatorietà in ragione delle peculiarità del lavoro giornalistico, ben diverse da quelle di altre professioni. Formazione e aggiornamento, infatti, dovrebbero essere funzioni costanti dell’attività quotidiana, alimento giornaliero di ogni professionista dell’informazione. Chi si sottrae a questo, al di là di ogni conteggio di punti, viene di fatto squalificato sul campo dai lettori-ascoltatori, quando non dagli editori”. Una chiara richiesta di azzerare tutto, nonostante l’Ordine del Lazio possa annoverarsi tra i pochi che si sono dati un gran daffare per organizzare gratuitamente la totalità dei corsi per i suoi circa 21mila iscritti; al contrario, ad esempio, dell’Ordine Lombardo che, almeno all’inizio, ha offerto la maggioranza dei corsi a pagamento. “Abbiamo cercato di mantenere la barra dritta sulla gratuità”, conferma Picozza. Anche se occupare una mattinata per ascoltare, come è capitato a chi scrive, un tizio che invece di spiegare cos’è il Jobs act ha grillescamente affermato che il problema del lavoro si risolve “dando 600 euro a tutti” (valore del corso 4 crediti ); o un altro prof che, invece di spiegare poteri e limiti d’azione del presidente della Repubblica, racconta aneddoti quirinalizi descrivendo un Ciampi un po’ stizzoso e incerto su come fare un decreto per risolvere la questione delle elezioni indette nella domenica della pasqua ebraica (altri 4 crediti), fa venir voglia più che di frequentare i corsi di chiedere a chi li tiene di aggiornarsi prima di salire in cattedra. “Con qualche docente abbiamo avuto dei problemi”, ammette Marco Conti, tesoriere dell’Ordine del Lazio. Certamente non con Carlo Cottarelli che ha tenuto un corso ancora in veste di commissario alla spending review: veramente interessante, tanto quanto la sua risata quando ha scoperto che la sua super riservata lezione su come è veramente complesso tagliare i conti dello Stato valeva soltanto 4 crediti.
Ma nella querelle scoppiata tra chi è favore e chi contrario alla formazione obbligatoria, c’è soprattutto il capitolo dei corsi a pagamento a cui molti sono costretti a ricorrere perché in quelli gratuiti (molti per una capienza massima di 30/40 persone) i posti si esauriscono alla velocità di un clic su Internet. “Ultimamente abbiamo cercato di contrastare questi professionisti della prenotazione facile”, spiega Marco Conti: “Se per la seconda volta non si presentano al corso gratuito, vengono messi in coda”. Comunque Iacopino, replicando su questo punto, precisa: “Al fini di sfatare molte delle chiacchiere che circolano, alla data del 12 novembre 2014 gli Odg regionali (ai quali va dato atto di uno sforzo lodevole) hanno organizzato in totale 1.063 corsi. Ben 870 sono stati a titolo assolutamente gratuito (alcuni Ordini hanno ipotizzato il versamento di un ticket di pochi euro). Gli altri sono stati organizzati da enti formatori terzi su materie attinenti la professione (quindi a termine di legge non era possibile bloccarli), materie sulle quali – salvo casi sporadici – gli Odg regionali avevano organizzato analoghi corsi gratuiti”.
L’elenco degli enti formatori è lungo: 53 le autorizzazioni concesse. Dalla Pegaso di Napoli (legata direttamente Forza italia ) alla Espero di Milano (di un ex parlamentare del Pd), dalla Iulm, al Sole 24 Ore e al Centro documentazione giornalistica. E poi tutte le principali università, oltre alla scuola di giornalismo della Rai di Perugia (l’elenco completo si trova sul sito dell’Ordine nazionale). Costo dei corsi? Uno sul video editing, organizzato dal master Iulm-Mediaset il 2 dicembre scorso, costava circa 130 euro, Iva inclusa, e assegnava 6 crediti. Stesso esborso alla Scuola di giornalismo Walter Tobagi di Milano per un corso di 8 ore sul food writing (8 crediti). Quelli sulla deontologia sono invece sempre gratuiti e comunque c’è la possibilità di rispondere on line a un questionario che assegna 10 crediti.
Dunque, che fare? Comportarsi come molti giornalisti che hanno deciso di fare disobbedienza civile oppure continuare a seguire, anche a pagamento, i corsi per racimolare i crediti richiesti? Che – per la precisione – dovranno essere almeno 15 all’anno per un totale di 60 alla fine del triennio (di cui 15 sulla deontologia). E cosa accadrà a mega direttori, mega inviati, megafirme del giornalismo della carta stampata e della radiotelevisione, nonché ai giornalisti divenuti parlamentari ed europarlamentari che non avranno i crediti richiesti? In molte redazioni c’è chi giura, avendolo visto con i propri occhi, che tra i direttori c’è chi ha già ingaggiato qalche solerte redattore perché risponda al suo posto ai questionari on line, non si sa mai… “La violazione dell’obbligo di formazione continua comporta, alla fine del triennio 2014-2016, l’avvio di un’azione disciplinare nei confronti dell’iscritto inadempiente”, è genericamente scritto nella legge che riguarda tutti gli ordini professionali. E per quello dei giornalisti? Cliccare nel sito dell’Ordine nazionale dei giornalisti sulla legge attuativa è pressoché impossibile: Il link c’è, ma purtroppo non si apre. E la ragione è presto spiegata: a differenza degli altri ordini, il nostro ancora non ha redatto il regolamento. Quindi, tra un anno e mezzo, quando i più avranno seguito un congruo numero di corsi, potrebbe anche verificarsi che l’unica sanzione prevista per chi non lo ha fatto sarà quella di non potersi candidare agli organismi di categoria, come ha già anticipato Iacopino in una lettera pubblicata lunedì 1° dicembre sul Corriere della Sera in risposta a un articolo uscito sul quotidiano il giorno prima a firma di Sergio Rizzo. “Le sanzioni”, precisa ulteriormente Iacopino, “ci sono e sono quelle previste dalla legge per la violazione degli obblighi deontologici”. Ma, come fa notare Carlo Picozza, violazione dell’obbligo deontologico è pubblicare la foto di un bambino, il nome di un minore o accreditare una fonte a cui si era garantito di parlare off the record. “Noi che siamo contrari all’obbligatorietà della formazione, ci batteremo affinché non vi siano sanzioni”, assicura. E a Iacopino, che lo ha accusato di aver definito “uno schifo” i corsi di aggiornamento, replica: “Schifato non dai singoli corsi, ma dalla piega che la faccenda della formazione obbligatoria ha preso. Schifato, insomma, dai fenomeni spesso al limite del ridicolo che l’obbligatorietà della formazione per i giornalisti sta creando e, soprattutto, dal mercimonio che rischia di prendere piede, complici una legge e un regolamento di attuazione incongruenti”.
Allora, al termine di questa navigazione nelle acque agitatissime della categoria, dopo aver racimolato finora 12 punti e pensato di dedicarmi durante le vacanze di Natale al questionario on line, credo che alla fine mi comporterò come molti miei amici giornalisti. Mi spiace Iacopino: forse dovevamo essere obbligati a fare soltanto il corso sulla deontologia, per il resto se uno è un pessimo giornalista lo è anche con i 60 crediti acquisiti. E con la crisi che c’è nel mondo dell’informazione e i molti giornalisti disoccupati e sottopagati (per i quali tu stai conducendo un’egregia battaglia), si sarebbe anche potuto evitare di rendergli la vita più complicata. Del resto la legge Severino era stata fatta soprattutto per quei professionisti la cui attività ha un rapporto e un effetto diretto sul pubblico. Ed è giusto. Perché se un ingegnere sbaglia, può crollare un ponte. E se un medico sbaglia, può far male sul serio. Ma se è un giornalista a sbagliare – fatto salvo il rispetto delle regole deontologiche – al massimo scende lo share e gli chiudono il programma, oppure scrive un pezzo da schifo. Tanto, come ben sappiamo, non è quasi mai il singolo giornalista a orientare con le sue parole l’opinione pubblica, ma i direttori e i relativi editori, che la formazione non la fanno. Quindi, mi sa che a Natale leggerò un bel libro.