(ANSA) Rendere pubblicabili soltanto le ordinanze che chiudono le inchieste; divieto assoluto di far finire invece sui giornali anche una sola riga del “materiale sottostante” e dunque delle intercettazioni e delle informative della polizia giudiziaria che sono state depositate, per essere messe a disposizione della difesa, ma che non sono entrate nel provvedimento del giudice per le indagini preliminari. E per chi viola le regole, niente carcere, ma sanzioni pecuniarie, che dovrebbero colpire preferibilmente l’editore o in alternativa il giornalista. E’ la proposta che lanciano alla politica i capi di due delle procure più importanti: Giuseppe Pignatone (Roma) e Edmondo Bruti Liberati (Milano), chiedendo al legislatore di valutare se estendere la disciplina che loro immaginano anche alla richiesta del pm. Lo fanno davanti alla Commissione Giustizia della Camera, che li ha convocati proprio per avere il loro giudizio sulla riforma delle intercettazioni, su cui il governo potrebbe imprimere ora un’accelerata. Il ddl dell’ esecutivo sul processo penale che contiene la delega sulle intercettazioni è fermo da mesi proprio nella Commissione presieduta da Donatella Ferranti. Ma proprio ieri il presidente del Consiglio Matteo Renzi, che già 15 giorni fa aveva assicurato che la riforma sarebbe stata approvata entro il 2015, ha detto chiaramente che è arrivato il momento di stringere: è “una partita che dobbiamo chiudere”, ha sottolineato tra gli applausi all’assemblea del gruppo del Pd. L’iniziativa dei due pm – ma condivisa, secondo Pignatone, anche dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi – finisce per arrivare dunque proprio quando l’interesse per la riforma torna vivo. E parte dalla constatazione che nella situazione attuale è “irrealistico”, come dice il procuratore di Roma, pensare di identificare chi passa ai giornalisti carte che non dovrebbero essere pubblicate, considerato che in un processo di medie dimensioni sono tra le 150 e le 200 le persone che hanno “legittimamente” accesso agli atti. Inutile pensare di ridurre il problema soltanto rafforzando l’udienza filtro per scremare le sole intercettazioni rilevanti: “va limitato drasticamente quello che si può pubblicare”,sostiene senza giri di parole Pignatone. Se l’ordinanza di custodia cautelare o di sequestro che conclude l’indagine “dev’essere totalmente conoscibile e pubblicabile”, e “messa a disposizione di tutti i giornalisti con parità di trattamento”,anche per consentire il “controllo democratico” sull’azione giudiziaria, come sottolinea Bruti Liberati, tutt’altro regime deve valere per gli atti compiuti in precedenza: dovrebbero restare conoscibili alle parti, ma coperti dal segreto per la stampa sino al dibattimento di primo grado. Una scelta che se venisse fatta effettivamente dalla politica avrebbe effetti notevolissimi, considerato che in un’inchiesta complessa come Mafia capitale, con le 1000 pagine di ordinanza cautelare, ne sono state depositate altre 70.000 relative agli atti di indagine compiuti; carte su cui non si potrebbe scrivere nulla sino al processo. Da Pignatone e Bruti Liberati arriva alla politica anche la richiesta implicita di non limitare l’uso delle intercettazioni da parte delle procure: sono uno strumento di indagine “assolutamente indispensabile”, affermano convinti tutti e due. E il procuratore milanese assicura che non ci sono eccessi nel ricorso agli ascolti: tant’è che il suo ufficio, pur alle prese con grosse inchieste su mafia e corruzione, ha ridotto in quattro anni di un terzo i “bersagli”, scesi “dai 14mila del 2009 agli 8491 del 2013”. (ANSA, 16 aprile 2015)