Il conduttore di Ballarò, Giannini, a 'Repubblica': il premier ha aperto la caccia contro di noi, non siamo suoi cantori. La crisi dei talk riflette quella del discorso pubblico

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(Repubblica.it)  – “Il compito del presidente del Consiglio è governare il Paese, non decidere se i palinsesti dei programmi Rai siano giusti o sbagliati. Ieri Renzi lo ha riconosciuto, ed è un bene, ma una settimana fa non è stato così e questo ha creato un clima da editto bulgaro”. Per Massimo Giannini, conduttore di Ballarò, il premier magari suo malgrado – ha fatto “come il cacciatore che scioglie la muta dei cani”.

Si riferisce alle parole in direzione pd?
“Dal momento in cui ha messo sotto accusa i talk del martedì è partito un fuoco di fila e chiunque si è sentito legittimato a sparare a zero contro l’informazione televisiva. Dagli esponenti della Vigilanza fino al governatore della Campania De Luca”.
A Ballarò vi siete sentiti sotto attacco?
“Che ci sia stato un attacco è sotto la luce del sole, ma voglio chiarire una cosa: io non cerco improbabili martirii e dal punto di vista televisivo non ho né la storia né la stoffa di Michele Santoro. Vorrei solo far bene il mio lavoro. Per questo, per me il caso è chiuso”.
L’intervista al Tg3 di Bianca Berlinguer è una marcia indietro?
“Apprezzo il fatto che il premier abbia smorzato i toni, che abbia detto ad esempio che non ci sono liste di proscrizione. Aggiungerei: ci mancherebbe altro. Ma il timore è che, toni a parte, la sostanza resti quella”.
Quale?
“La sensazione è che sia sgradito tutto quello che non corrisponde alla narrazione che Renzi vuole proporre al Paese. Quando dice che il primo risultato che la Rai deve conseguire è rendere i cittadini orgogliosi delle cose che vanno bene, provo un sottile filo di inquietudine”.
Come risponde a chi la accusa di aver costruito trasmissioni squilibrate e scorrette nel racconto della realtà?
“Ho il massimo rispetto per i parlamentari della Vigilanza, ma ho trovato inaudite le parole di Michele Anzaldi, che pure conosco da anni. Dire “non hanno capito chi ha vinto” mi ha ricordato i momenti più bui della prima Repubblica, quando a Bruno Vespa toccava dire: il mio azionista di riferimento è la Dc. Alcuni dei “nuovi” del Pd, entrati nella stanza dei bottoni, sembrano bambini in un negozio di giocattoli che dicono: ‘È tutta roba mia?’. E cominciano a giocare. Ha detto bene Andrea Guerra, l’altro ieri a Ballarò: ‘Renzi si ricordi che è un quarantenne innovatore e si dimentichi Verdini'”.
Siamo davvero fuori dai tempi della lottizzazione?
“Per me sì, per la politica forse no. A me non interessa chi ha vinto le elezioni, io mi sento libero di trattare allo stesso modo maggioranza e opposizioni perché questo è il dovere del buon giornalismo. Sono di sinistra, ma non per questo se la sinistra vince devo riservarle una qualsiasi forma di riguardo. Sarebbe la rovina della libera informazione”.
Ha violato il pluralismo?
“Ma si figuri se non lo rispetto. In questo momento non siamo in par condicio e il problema va affrontato nella traiettoria dell’intera stagione. Trovo però svilente che la Vigilanza stia lì a misurare i minutaggi dei singoli partiti. Da un organismo di quel tipo mi aspetterei un dibattito più alto e più ambizioso. Quanto ai 5 stelle, mentre li intervistavo e il Pd si indignava, su Twitter mi accusavano di essere ‘servo di Renzi’ per le mie domande. Se mi criticano da entrambe le parti, forse sto facendo bene il mio mestiere. Poi, sulle condizioni poste dai partiti nei talk, quando quest’avventura finirà magari scriverò un libretto: ce n’è per tutti”.
Il calo di ascolti è incontestabile. La formula del talk è usurata?
“La crisi dei talk riflette banalmente la crisi del discorso pubblico e di tutte le forme di rappresentanza, dalla politica al sindacato. Una crisi provata dalla crescita dell’ astensionismo elettorale. In Emilia vota meno del 50% degli elettori: il campanello d’allarme suona per tutti. È il problema della nostra democrazia. Parliamo di questo, non della crisi dei talk o degli ascolti di Rambo”.