Che giornale legge per primo Ezio Mauro, direttore (uscente) di Repubblica? Prima il Corriere, poi sbrigo quelli di destra, racconta al 'Foglio'. Con un ipotetico budget illimitato aprirei uffici di corrispondenza nel mondo

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Il Foglio 30/11/2015 di Michele Masneri – (…) In fondo Mauro, come un militare o un corrispondente, è un po’ apolide, come il suo giornale: «Repubblica ha questa doppia vocazione di essere un giornale che non è di Roma, non è di Milano, non ha una capitale sua propria, ha una sua dimensione nazionale, è l’unico, se ci pensi».

Sì, però, cosa vuol dire in definitiva fare il direttore di Repubblica? «Ci hanno detto che siamo un giornale-partito; una cosa che mi ha sempre irritato molto, è allo stesso tempo di meno e di più, perché sicuramente c’è questo rapporto coi lettori che altri giornali non hanno, però poi succede anche che ti scrivono delle cose tremende; c’è un legame fortissimo coi lettori che quando arrivi da altri giornali avverti come differente. L’altro giorno mi ha scritto qualcuno che mi aveva visto nella riunione di redazione in streaming, mi dice “ah, che abbronzatura, si è fatto una bella vacanza, bravo Mauro, invece che stare al giornale”, e io gli stavo rispondendo “guardi che son stato a giocare a calcetto con mio figlio”, poi mi sono reso conto che non era il caso, non ero tenuto». E però: «Noi e voi abbiamo in comune uno sguardo – mi ha detto il direttore del País» e forse solo il País, più che il Monde, hanno in comune quest’aria di famiglia con i propri lettori, non certo il Corriere, non La Stampa; per i lettori, al netto di feticismi (il sito Pazzo per Repubblica) quella di Largo Fochetti è una famiglia un po’ disfunzionale, con dei personaggi precisi che sono un po’ parenti a cui si è affezionati, che si chiamano per nome: i Fondatori, il Principe, l’Ingegnere, Barbapapà; e poi lui, Eziomauro tutto attaccato, anche gli addetti alla sicurezza, sotto il torrione di Largo Fochetti, dicono così, «accompagna il dottore da Eziomauro»; non succede in altri giornali, no? Ci si accoppia in famiglia, ci sono dei piccoli riti… Ogni tanto muore qualcuno dei fondatori, e a Roma dai necrologi annunciano al tempio laico del Verano un funerale dove tutta la famiglia è riunita… «Qui c’è un senso del gruppo, del club» (pronuncia club come Berlusconi, e la sua parlata è simile a quella del Cavaliere, forse per suggestione o per piccola nemesi); «l’altra sera siamo stati due ore dopo la riunione di redazione a parlare con Stefano Folli, Claudio Tito e Francesco Merlo, del Quirinale, a parlare di Gronchi, di De Mita. Di roba politica vecchia. Mi piace molto stare con loro, con i miei».
Ma nella grande famiglia di Repubblica, dove c’è già un papà, tu chi sei? Lo zio saggio? «Saggio non me l’ha mai detto nessuno. Eugenio è certamente il padre. Lì c’è stata la fortuna che è nato un rapporto di amicizia, che non era scritto nel contratto. Nei tre anni di Mosca ci siamo sentiti al telefono zero volte in totale. Io mi ero dato la regola: il direttore è una persona impegnata, io non lo disturbo. Se mi doveva dire qualcosa mi telefonava lui. E non mi ha mai telefonato». Ma in definitiva ti piace di più fare il direttore o scrivere? «Scrivere». E cosa odi di più del lavoro di direttore? «Ecco, non mi piace telefonare. Una volta quando ero inviato alzavo volentieri il telefono, adesso spesso quando suona, ecco, proprio non risponderei. Parlo molto meno coi politici. Renzi non lo sento da tre mesi. Con Bersani ci siamo mandati degli sms per Natale. Con D’Alema sono cinque anni che non ci sentiamo. Una volta un vicedirettore è venuto a riferirmi che D’Alema voleva che lo chiamassi, e io lo stavo anche facendo, ma poi ho pensato: ma se mi vuole sentire, perché non mi chiama lui?». Che giornale legge per primo il direttore di Repubblica? «Mah, li metto tutti su un tavolo, la mattina. Repubblica praticamente non la leggo, perché essendo uscito dal giornale alle undici la sera prima quasi l’ho già letta tutta. Guardo prima il Corriere, poi sbrigo quelli di destra… perché hanno meno pagine, ci metto poco tempo… quindi Il Giornale, Libero, Il Fatto…». Il Fatto? «Sì, quelli di destra hanno anche meno pagine» (Mauro sorride impercettibilmente), «ci metto meno tempo. Poi, dopo, gli altri, La Stampa e Il Foglio…». E se non ci fosse questa tremenda crisi dei giornali, cosa faresti, se avessi un budget illimitato? «Aprirei degli uffici di corrispondenza nel mondo. Un corrispondente in India, per esempio, subito». Per civetteria, si era deciso di non nominare mai una volta al direttore in questa intervista il nome di Berlusconi. Però poi ci si accorge che lui è lì, aleggia nell’aria, forse è l’Est contro cui Mauro ha combattuto in tutti questi vent’anni, vincendo forse una guerra, sentendo adesso forse la mancanza del nemico, al cui solo nome si rianima. «Vedi tutti i primi ripiani di quella libreria lì? Sono frutto di questa mia ossessione; ho cercato di studiarlo, non l’ho preso sottogamba. Ho studiato testi indiani, sono arrivato fino allo sciamanesimo». Mauro ha studiato diligentemente il suo Est, e forse i tre anni di Mosca hanno fatto di lui un uomo della guerra fredda, e un mondo multipolare non gli dà la stessa soddisfazione degli imperi contrapposti. «Ci siamo lasciati ossessionare da lui, ma ci sono due cose da aggiungere, se si vuole essere onesti: che in quell’ossessione abitava anche lui; e se stai dentro quell’ossessione capisci tutto, capisci anche lui…». E poi, sempre su Berlusconi: «È stato un fenomeno giornalisticamente interessante. Credo che Repubblica abbia giocato una buona partita». Parla al passato. «Beh, la partita era bella quando lui era potentissimo (e al «potentissimo» al generale Mauro brillano gli occhi), «quando lo squilibrio di forze era notevole, quando lui presidente del Consiglio denuncia in tribunale le domande di un giornale. Quello è stato un momento… fantastico». Uscendo dall’ufficio del direttore di Repubblica viene in mente la vecchia massima del Duca di Wellington: «A parte una sconfitta, niente di più malinconico di una vittoria».