Da poco più di una settimana i dettagli dei Panama Papers riempiono le pagine dei quotidiani internazionali. L’artefice dell’inchiesta è stato, come ben si sa, l’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), organizzazione no-profit composta da più di 190 giornalisti, disseminati in 65 paesi al mondo.
Ma come hanno lavorato i reporter e sopratutto come hanno fatto a maneggiare una tale mole di dati e informazioni? A raccontarlo in un post sul sito Nieman Report è Uri Blau, giornalista israeliano che ha già collaborato con l’ICIJ in due altre occasioni, per Swiss Leaks e Luxembourg Leaks.
A mettere in moto il processo è stato il giornale tedesco Süddeutsche Zeitung, che per primo ha ricevuto i file di Panama da una propria fonte, condividendoli poi con tutta l’Icij. Dopo i contatti preliminari via mail e Skype più di 10 mesi fa, racconta Blau, a giugno il primo incontro tra i rappresentati di una dozzina di organizzazioni media che in inglese hanno discusso alcuni aspetti di questo ‘nuovo progetto’. Uno dei passaggi chiave era decidere come condurre la ricerca tra i 2.6 terabytes di dati, che risalivano anche a 40 anni fa.

Nei mesi seguenti, nei quali si sono susseguiti altri incontri, il numero dei giornalisti coinvolti nel progetto è cresciuto costantemente. Ai collaboratori è stata data la possibilità di accedere a un sito protetto che permetteva la ricerca all’interno dei file. Attraverso l’ocr, il riconoscimento ottico dei caratteri, è stata resa possibile la ricerca di immagini e file generalmente non individuabili, mentre successivamente si sono aggiunte nuove opzioni come la ricerca interna basandosi sulla data di un documento, sul nome del suo creatore o destinatario, la possibilità di scaricare i documenti stessi, o con la visual research consentire ai giornalisti di riconoscere facilmente le connessioni tra le compagnie e i clienti.
Sono state costruite anche liste ed elenchi con i nomi dei beneficiari, azionisti, amministratori o proprietari divisi per paesi. Non meno significativa, continua il giornalista, è stata la creazione di una piattaforma che ha consentito ai giornalisti di comunicare tra loro, una specie di Facebook, in cui ogni reporter aveva un profilo personale, con forum per discutere diversi argomenti. Questo quindi il vero cuore dell’operazione, conclude Blau, che alla fine ha coinvolto in tutto più di 370 giornalisti in 80 paesi, appartenenti a un centinaio di organizzazioni media.