Pubblicità online: questo è veramente l’anno del mobile, dice l’Osservatorio Internet Media. Ma sono gli over the top che si prendono l’80% degli investimenti

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Claudio Cazzola – “Questo è l’anno del mobile è una battuta che abbiamo già sentito diverse volte gli scorsi anni”, ha osservato Umberto Bertelè, presidente degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, alla presentazione dei dati sugli Internet Media, il 14 giugno, nell’aula magna del nuovo Politecnico Bovisa. Questa volta non si è trattato però di un auspicio o di una previsione avventata. Nel 2016 (anno a cui si riferiscono i dati della ricerca del Politecnico) gli utenti italiani hanno trascorso oltre il 60% dei tempo speso online proprio sugli smartphone.

Peccato che – come ha notato Giuliano Noci, responsabile scientifico dell’Osservatorio Internet Media – la raccolta pubblicitaria su smartphone rappresenti per ora solo il 30% del totale della pubblicità online, e sia quindi molto lontana dall’importanza che questo device ha assunto nella dieta mediatica degli italiani. Non migliore la situazione per i tablet (o meglio per le app sui tablet) che hanno ancora un peso marginale, visto che rappresentano solo il 5% del mercato pubblicitario online, anche se in crescita del 36% rispetto al 2015.

Il grosso della pubblicità online, il 65% del totale, passa dunque ancora attraverso il desktop. Il peso del Pc nel mercato pubblicitario sta però diminuendo di anno anno, mentre quello dello smartphone è in forte crescita: l’anno scorso la pubblicità sui device mobili ha raggiunto i 706 milioni di euro, il 54% in più rispetto al 2015.

Questo significa che gli editori online devono dedicare molta attenzione a questo segmento del mercato: chi non l’ha ancora fatto, ad esempio, deve affrettarsi a rendere responsive (cioè accessibili su tutti gli schermi) i propri siti web. Altrimenti gli editori perderanno ancora più terreno rispetto agli over the top, i big internazionali del web come Google e Facebook, che già assorbono il 67% degli investimenti totali, ma sul mobile spadroneggiano, arrivando a controllare addirittura l’82% degli investimenti.

Secondo i dati dell’Osservatorio, il mercato pubblicitario complessivo vale 7,7 miliardi di euro in Italia. Nel 2016 è cresciuto del 4%, invertendo finalmente il trend negativo degli scorsi anni. La televisione resta il mezzo dominante: controlla infatti il 50% del mercato e cresce del 5% rispetto al 2015. Al secondo posto gli Internet media che rappresentano il 30% del mercato e che sono cresciuti di 9 punti percentuali. Terza la stampa, al 15%, che prosegue il suo declino (-6% nell’ultimo anno): in pratica la sua quota è la metà rispetto al 2008. Stabile (+2%) la radio, che però rappresenta solo una nicchia del mercato, il 5%.

Si conferma così ancora una volta l’anomalia italiana di una televisione che domina ancora il mercato, mentre in Europa è già stata scavalcata da Internet. Lo ha sottolineato Chiara Mauri, marketing manager di Iab Italia, illustrando i dati dell’AdEx Benchmark Study, presentati lo scorso maggio. L’online è il primo mezzo pubblicitario in Europa già dal 2015 e nel 2016 il sorpasso è risultato ancora più netto. Il paese più avanzato è il Regno Unito, la cui raccolta pubblicitaria online è due volte e mezzo quella della Germania. L’Italia si colloca al quinto posto nella classifica europea. Da noi l’online cresce, ma meno della media del continente. Superiamo la media solo nel video advertising, in particolare nei pre roll, che sono valutati bene anche in termini di cpm (costo per mille impression).

Il video è stato oggetto di un approfondimento da parte di Guido Argieri della Doxa, che ha presentato i risultati di una ricerca sulle modalità di consumo, condotta su un campione della popolazione italiana. Risulta che le classi di età più anziane (i cosiddetti baby boomers) guardano ancora molta tv in diretta, lasciandosi guidare dalla programmazione, mentre per la generazione x dei trentenni e quarantenni e soprattutto per i più giovani (i millennials) sta diventando un’abitudine la nuova tv che si guarda in streaming su Internet, a pagamento o in modo gratuito. Youtube rappresenta il 54% della fruizione gratis in streaming, seguito dalla replay tv della Rai, di Mediaset e della 7 (38%) e dagli altri siti, compresi quelli pirata (39%).

La propensione al pagamento per i contenuti video è comunque abbastanza elevata, come dimostra il numero di abbonati alla pay tv di Sky e di Mediaset Premium, e ai servizi video on demand come Netflix, Infinity, Now Tv, e Tim Vision. Al contrario la propensione a pagare per le news online è molto scarsa. Il 93% degli intervistati ha dichiarato di non essere disposto a pagare per fruire di giornali, riviste o altre fonti di informazione a pagamento su Internet. Le motivazioni? Il 69% perché giudica sufficienti le news gratuite trovate online, il 23% perché si informa sui giornali cartacei e il 20% perché giudica troppo costosi i contenuti online a pagamento dei giornali.

Un’attenzione particolare è stata dedicata al tema della misurazione, che ha dato titolo al convegno: ‘Internet media, è ora di misurarsi’. “Serve un tavolo delle regole del gioco”, ha affermato Fabrizio Angelini, ceo di Sensemaker che rappresenta comScore in Italia. “Mi auguro che il Politecnico possa giocare un ruolo attivo nel trovare una governance per misurare il mercato”.

La misurazione è una procedura molto complessa. Si può misurare l’impression inviata, quella erogata, quella che ha l’opportunità di essere vista, quella vista effettivamente dall’utente (engagement), l’impatto che l’impression ha su di lui (branding) e l’azione o la mancata azione da parte dell’utente.

L’importante, secondo Angelini, è concentrarsi sui dati realmente importanti e non seguire le mode o i falsi miti che dominano in questo campo. “Il mantra per anni è stato il click through rate, ma le analisi dimostrano che non c’è lacuna correlazione tra click through rate e vendite o addirittura c’è una correlazione negativa”, ha osservato Angelini. “Anche i panel online sono da prendere con le molle a causa del loro effetto distorsivo, di due o tre volte rispetto al dato reale”.

Secondo Angelini non è neppure il caso però di sopravvalutare i fattori di rischio, come gli ad blocking, il traffico invalido e la brand safety, di cui si parla molto ma che hanno un impatto limitato: “L’ad blocking in Italia è un fenomeno contenuto e stabile, che riguarda il 13% degli utenti unici desktop; il livello di traffico invalido (generato da bot) è ancora più limitato, in media dell’1,16%. La viewability invece è un tema reale: in Italia è al 54%, contro il 50% della Germania e della Francia e il 55% degli Usa. Ancora inferiori gli annunci in target: sono il 47% in Italia, il 44% in Germania e Regno Unito, il 48% negli Usa. Anche la distribuzione delle frequenze non è ottimale, ha detto Angelini: molte persone ricevono troppo poche impression, mentre molte impression sono sprecate su un numero ristretto di persone”.

A questi temi è dedicato il Libro bianco sulla comunicazione digitale, curato dalle associazioni che rappresentano le varie componenti del mercato (Upa, Fieg, Fcp, Fedoweb, Iab, Netcomm, Unicom e Assocom), che sarà presentato il 27 giugno prossimo a Milano.