Il Nyt fa campagna contro moda italiana? ‎La Camera della moda dura contro l’articolo che denuncia il lavoro nero al Sud

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“‎Il lungo articolo pubblicato venerdì dal New York Times ‘Inside Italy’s Shadow Economy‘ , un’inchiesta di Elisabeth Paton e Milena Lazazzera sul disastrato mercato del lavoro nel Sud Italia con lavoratrici che producono a casa prodotti di lusso senza contratto e assicurazioni, ha suscitato dure reazioni nel mondo della moda nostrana di cui vengono tirati in ballo protagonisti del calibro di Max Mara e Tods. L’accusa e’ in sostanza che i grandi brand si servono di aziende intermediarie per fare produrre a costi bassissimi a lavoro nero.

Il servizio si apre citando il caso di una donna di Santerano in Colle in provincia di Bari che percepisce 1 euro per ogni metro di tessuto confezionato per realizzare dei “sofisticate cappotti di lana” per Max Mara che andranno in vendita tra gli 800 e i 2000 euro.

“Made in Italy ma a che costo?” si chiede il New York Times che oltre a parlare con le donne pugliesi utilizza dati dell’Istat sul lavoro in Italia, la testimonianza di Deborah Lucchetti di Abiti Puliti, il braccio italiano di Clean Clothes Campaign, che parla di migliaia di piccole aziende di attività familiari‎ e del fatto che i grandi brand del lusso preferiscono appaltare ad aziende esterne invece che produrre direttamente. Si creano catene di sub appaltatori che diventano incontrollabili.

Carlo Capasa (Ph Stefano Guindani/Sgp)

Al lunghissimo servizio, che tira in ballo anche Tods, ha risposto sabato la Camera della Moda con una lunga lettera indignata dove si sottolinea tra l’altro che “CNMI e i suoi Soci si impegnano da tempo al fine di rendere la filiera italiana resiliente, equa e tutelante su tutti i fronti. Un processo complicato che richiede tempo. Non ci sono soluzioni facili ma con il nostro Tavolo di Lavoro sulla Sostenibilità abbiamo già ottenuto concreti risultati e continuiamo a implementare soluzioni costruite su fatti in un’ottica di sistema”. E continua:

“Purtroppo questi risultati e progressi sono stati omessi nell’articolo del NYT che ha invece voluto trattare un caso circoscritto per inquadrare un contesto più ampio, perdendone il senso generale. Ad esempio, l’articolo del NYT giustamente riconosce che l’ultima statistica sul lavoro irregolare risale al 1973. L’unica statistica recente citata è di Tafia Toffanin, l’autore di Fabbriche Invisibili che stima che “attualmente ci sono da 2.000 a 4.000 lavoratori irregolari nella produzione di abbigliamento. Se si considera il contesto di una grande industria, che impiega 620.000 persone in 67.000 aziende, emerge chiaramente come i lavoratori irregolari rappresentino un’anomalia. Il nostro dato statistico ottimale sarebbe ovviamente pari a zero, tuttavia questo scenario dimostra che stiamo affrontando positivamente questo problema”.

‎Insomma peccato che Paton e Lazzazera a quanto sembra non abbiano chiesto informazioni agli uffici della Camera a Milano dove si compiacciono di sottolineare che “Le statistiche più recenti suggeriscono infatti che il numero di lavoratori irregolari è calato del 16% dal 2010 al 2015. Tra tutti i settori che hanno cercato di affrontare questo tema, quello della moda di lusso in Italia ha ottenuto i migliori risultati. L’articolo del NYT fornisce un quadro inesatto anche sullo status dell’Italia riguardo i diritti dei lavoratori in generale.‎”

C’e da chiedersi dove sta il mitico fack checking tanto sbandierato dagli americani nell’ articolo che afferma che “l’Italia non ha un salario minimo nazionale” e compara le politiche italiane per i salari e la produzione a quelle delle economie a basso salario, paragone inaccettabile”, ‎ per cui gioco facile la Camera della Moda a dire che ” è vero il contrario. In Italia il salario minimo e gli stipendi sono stabiliti attraverso negoziazioni e accordi tra sindacati e associazioni dei datori di lavoro. Ciò accade autonomamente per ogni settore. Tali accordi hanno lo stesso status giuridico di una legge (“forza di legge erga omnes), che tutela i lavoratori di tutti i settori. Fissare i salari attraverso la negoziazione rappresenta la possibilità di avere una maggiore equità sociale e regole più democratiche, invece che definire un salario minimo per legge, in quanto tale soluzione ha dimostrato di portare un maggior indice di sindacalizzazione”.

“L’Italia” sottolinea la lettera,”vanta uno dei più alti indici di sindacalizzazione nel mondo: il 34,4%. Secondo le statistiche OECD, quando si parla di ‘Trade Union Density’ o indice di sindacalizzazione il nostro Paese si posiziona appena al di sotto dei Paesi Scandinavi e del Belgio. Si colloca ben al di sopra dei paesi anglosassoni come il Regno Unito e gli Stati Uniti, dove solo il 23,7% e il 10,3% dei lavoratori sono rappresentati da sindacati.

Inoltre, i dati dell’OECD mostrano anche che l’Italia ha un divario salariale di genere più basso rispetto alla maggior parte degli altri Paesi OECD”. ‎ Il problema forse e’ che questo tipo di sindacalizzazione non arriva nelle case del Salento, peraltro zona turistica molto gettonata dal turismo del lusso internazionale, a cui non fa bene far sapere a tutto il mondo tramite il NYT che di fianco alle masserie da sogno ci sono donne sottopagate che sudano nelle loro cucine.

La Camera della Moda tiene molto alle proprie attività sul fronte della sostenibilita’ che questa settimana a Milano trovano un palcoscenico con i Green Carpet Fashion Awards Italia, un eventone sfavillante a proposito del quale c’e’ chi incomincia a chiedersi se non sarebbe meglio dargli un tono un po’ meno mondano in linea con il bon ton della sostenibilità.