Insulti sui social? Può scattare la diffamazione aggravata e si rischia fino a 3 anni di carcere

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Commenti, post e immagini offensivi pubblicati sui Social network (di qualsiasi tipo) non sono privi di conseguenze: si rischia l’accusa di “Diffamazione aggravata” prevista all’articolo 595, comma 3, del Codice penale:

“Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.”

Ciò perché- scrive Mymoney.it –  gli insulti online ledono la dignità altrui esattamente come quelli pronunciati nel mondo reale. Anzi, la grande diffusione che possono avere sui Social rendono il fatto ancor più grave.

Per questo la giurisprudenza ha reputato che si trattasse di diffamazione scrivere sulla bacheca di Facebook “pseudo giornalaio (…) pagato per blaterare” rivolto ad un giornalista (Tribunale di Campobasso, 43/2020) o dare del “miserabile bisognoso di cure psichiatriche” all’ex marito.

Il Sole 24 Ore approfondisce bene la situazione e chiarisce quando uno sfogo rischia di sconfinare in crimine se – per tenore letterale o contenuto – sfori i limiti del rispetto delle persone coinvolte.  A stabilire i confini tra commenti solo inopportuni e le fattispecie di reato è la giurisprudenza.

Stessa sorte per la moglie separata che in bacheca, considerata luogo aperto al pubblico poiché fruibile dagli iscritti al social, insulti il marito qualificandolo come «un miserabile» bisognoso di cure psichiatriche (Corte d’appello di Cagliari, 257/2020) o per chi, nella spasmodica ricerca di «giustizia nel placet di un esercito virtuale di utenti», denigri una professoressa sul piano familiare, privato e lavorativo (Tribunale di Ascoli Piceno, 90/2020).

Condannato anche chi – riferendosi alla vicenda di un operaio di uno stabilimento siderurgico tragicamente morto sul lavoro – pubblichi sul suo profilo pesanti offese a un sindacalista definendolo «viscido e senza spina dorsale» (Tribunale di Taranto, 123/2020).

Diffamatorio, inoltre, il commento che marchi un giornalista come uno «pseudo giornalaio (…) pagato per blaterare» per infangarne la reputazione e offuscarne il patrimonio intellettuale, politico, religioso, sociale e ideologico (Tribunale di Campobasso, 43/2020).

Il reato si configura se le espressioni adoperate sono tali da gettare una luce oggettivamente negativa sulla vittima. Sfuggirà a responsabilità penale, pertanto, chi – interagendo sulla piattaforma di Youtube – auguri a un dottore che aveva rilasciato un’intervista critica sull’omosessualità che le figlie siano lesbiche e sposino dei gay, eventualità che nella realtà non riveste un connotato spregievole (Cassazione, 17944/2020).

Del resto, il bene protetto è l’onore “sociale”, ossia la reputazione di qualcuno in un certo gruppo e in un particolare contesto storico.

Prova e risarcimento
Per inchiodare il colpevole di un post offensivo e dimostrarne la paternità, puntualizza la Corte di Cassazione con sentenza 9105/2020, è superfluo ricorrere alla macchinosa procedura della rogatoria internazionale nella sede americana di Facebook se l’imputato non solo ha firmato e diffuso lo scritto su siti di libero accesso ma – diffidato dalla persona offesa – ha provveduto a rimuoverlo.

La persona diffamata può quindi costituirsi parte civile nel processo penale o rivolgersi direttamente al giudice civile per ottenere il risarcimento del danno morale da calcolare in via equitativa (Tribunale di Vicenza, 1673/2020).

Falso profilo
Una fattispecie diversa si configura se si “ruba” l’immagine di una persona per creare una falsa identità digitale associata a un nickname di fantasia e da lì si fanno partire delle offese. È infatti configurabile il reato di sostituzione di persona, insieme con la diffamazione aggravata a mezzo stampa qualora con l’acquisizione degli screenshot si appuri che le offese siano state divulgate con post visibili agli “amici” del profilo e non con l’invio di messaggi in privato (Cassazione, 22049/2020).

Per scovare l’autore dei contenuti infamanti occorre individuare con gli indirizzi IP (Internet Protocol address) il numero del datagramma che identifica univocamente un dispositivo (host).