Trasformare gli spazi urbani in un concerto di armonie, artificiali e dal vivo, che combattano il disastro ambientale del rumore. Anche questa è cultura. Un’idea concreta per una sostenibilità reale
Nel grande chiacchiericcio sul ‘dopo pandemia’, i designati ricorrenti, il cui significato è sempre più vacante, sono: a) la città; b) la cultura. Le parole chiave, che sostengono questa vaghezza, sono sostenibilità, resilienza, verde, mobilità leggera, massimo un quarto d’ora di spostamenti, eccetera. Ovviamente la parola magica nella vaghezza è sostenibilità: tutti i grandi autori del nostro futuro, a cominciare dagli attori del real estate, ci riempiono di certificazioni varie, in gran parte incomprensibili, che hanno lo scopo di far lavorare i consulenti vari. Non parliamo della cultura: in dichiarazioni che sfiorano l’analfabetismo, gli stessi che si occupano di verificare la sostenibilità, dichiarano che senza la cultura non si va da nessuna parte. E quale, si chiede il cittadino sopraffatto da questi intenti miracolosi: il teatro, il balletto, le mostre, i musei, le marionette, la poesia, gli eventi enogastronomici… boh? Eppure da qualche altra parte qualcuno, che pensa alle città del possibile benessere del futuro e alla correlazione spazio urbano-cultura, ci sta ragionando e anche in modo concreto. Per esempio in piazzale Piola, piazza trafficatissima vicino al Politecnico, a Milano, è stato creato un giardino zen con sculture giapponesi e performance di danza in collegamento con il teatro No’hma lì vicino.

Un’iniziativa promossa dalla presidente dell’Accademia di Brera Livia Pomodoro, in onore della sorella Teresa, creatrice di quel teatro. Un’iniziativa che ha visto la partecipazione di quasi tutta la popolazione del quartiere che, infischiandosene del traffico e delle certificazioni, ha dimostrato che la domanda sociale di cultura ha una fisionomia ben definita. E questo, dello spazio pubblico e delle piazze in particolare che veicolano momenti e azioni di cultura, è un bel tema progettuale.
Pensiamo infatti al ruolo che può avere la musica negli spazi pubblici aperti: un contrasto a uno dei peggiori disastri ambientali che è il rumore, la creazione di sospensioni e rallentamenti nell’altro disastro ambientale che è il muoversi in modo veloce e dissennato, o uno spazio di comunicazione inclusiva per i soggetti più fragili, anziani e bambini. E pensiamo a quanta innovazione questa progettazione può creare nelle infrastrutture della città: per esempio, con lo studio di materiali di protezione e isolamento acustico, con la progettazione delle morfologie ambientali che ospitino i musicisti (musica artificiale e musica dal vivo), la progettazione delle correlazioni con il sistema del verde circostante e dei colori codice dell’ambiente. Immaginate che, a sistema nelle pieghe di un duro futuro, tutte queste musiche negli spazi aperti siano governate da un’intelligenza artificiale che crei un continuum, che trasformi la città in un concerto. Nella visione delle città dopo la pandemia, il tema focale è creare reti e connessioni (altro che borghi e quarti d’ora): la musica è una perfetta infrastruttura culturale e di buon impatto sociale per questa rete. Se poi dobbiamo interrogarci su come l’ambiente deve diventare per alimentare nell’uso degli strumenti culturali azioni di welfare che sostengano il benessere e la salute… quello dello spazio musica è uno di questi strumenti, al pari dell’esperienza con un’opera d’arte visiva o di architettura. Si tratta, come sempre, di un’innovazione che ha radici nella storia, quando Luigi Boccherini dedicava il suo concerto alla ‘musica notturna delle strade di Madrid’, o quando non tanto tempo fa Brian Eno e altri inventavano l’ambient music e la musica per aeroporti. Insomma le città e i cittadini si aspettano meno certificazioni e più idee. Questo si chiama: cultura.