Carlo Verdelli direttore della Gazzetta dello Sport: “Voglio qualcosa di più”

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Carlo Riva intervista Carlo Verdelli, direttore della Gazzetta dello Sport dal 2006 al 2010. Questo servizio è stato la copertina di Prima Comunicazione (15 novembre 2007)


Dice Carlo Verdelli: “Noi abbiamo spalato tanto di quel carbone nella caldaia della Gazzetta… Ma facciamo un ragionamento generale. Quando nei quotidiani si va incontro a grosse difficoltà, le strade che uno ha davanti sono due, le solite due: o cerca di arrestare il declino frenando a più non posso; oppure cerca di strambare”.
Strambare?
Sì, cambiare strada, direzione… Questa seconda strada è quella che i direttori preferiscono. Perché mentre strambi ti dai da fare, reagisci, inventi qualcosa… e poi c’è questo mondo, questa società che ti dà una mano… Perché qui tutto cambia, ogni giorno: la Toyota vende più di qualsiasi altro, anche della General Motors, negli Usa si candidano alle presidenziali un nero e una donna… E allora come minimo cerchi di cambiare anche tu, invece di continuare a vendere giornali vecchi, scritti con un linguaggio da notaio dell’Ottocento.
E su cosa avete puntato?
Sul linguaggio, meno aulico, un po’ più ironico. E poi abbiamo fatto largo all’attualità con due pagine. Inoltre, abbiamo strambato nella scelta dei temi. Voglio dire: se la fiorettista Valentina Vezzali, che andava a finire in RaiSat per un pubblico di nicchia, fa una cosa spettacolosa, lei che fa? La mette in seconda o terza pagina o le dedica il titolo di apertura? Certo, un giornale che costa un euro e ha la metà delle pagine del Corriere o di Repubblica si candida per forza a essere un secondo giornale. Ma c’è spazio per comprare un secondo quotidiano in un’edicola già così sofferente? Allora abbiamo la presunzione di presentarci ai lettori dicendo che non possiamo dar loro tutto, ma con quelle due pagine d’attualità possono stare al mondo. Inoltre, dopo otto pagine a Napoli, ne abbiamo aperte altre otto a Roma. La Gazzetta è un grande giornale popolare e vogliamo radicarci nel territorio. Conto di avere in tre anni edizioni regionali dappertutto. Questo è un quotidiano che internazionalizza la propria informazione e segue la Liga spagnola o la Premier League inglese esattamente come il campionato di calcio italiano, quindi non deve far mancare ai tifosi l’informazione di base sulle loro squadre. Inoltre, copriamo la Nba, la lega dei professionisti Usa di basket, come neppure i giornali americani, perché il nostro pubblico la segue con passione.
Del resto il basket Usa è molto seguito dai giovani, vostro bacino privilegiato.
La Gazzetta guarda ai giovani come locomotiva del suo target. Il 34% dei lettori è sotto i trent’anni. Sono arrivato un anno e mezzo fa e ho trovato un giornale con molte potenzialità. Soltanto un po’ assopito, ma con una grande redazione. Lo dico senza alcuna enfasi. Alle 22 le pagine sono ancora tutte bianche e dopo un’ora e mezzo sono piene non solo di articoli, ma di tabelline, commenti, fotografie. Insomma, questo giornale ha un motore forte e una grande tradizione. Di mio ho aggiunto quanto ho messo in tutte le testate in cui sono stato, sulla base del principio: “Ricordiamoci che stiamo facendo un giornale per i lettori”. Per me il lettore è al centro. Bisogna mettersi sempre dal suo punto di vista. Se posso permettermi una critica, prima nella Gazzetta l’errore stava nella struttura a scompartimenti stagni. I giornalisti dello sci, per esempio, usavano un linguaggio iniziatico, dando per scontato un sacco di elementi. Così come quelli del basket, del ciclismo o del calcio. Il lettore entrava in una di quelle repubbliche, quella che lo interessava, mentre nelle altre era un po’ respinto dalla gergalizzazione della specialità. La Gazzetta attuale è più omogenea. Se nel rugby è stato abolito il cosiddetto ‘terzo tempo’, voglio che i miei giornalisti spieghino che cosa è il ‘terzo tempo’. In questo modo anch’io, che non sono un esperto, posso godere della notizia.
Cambiamenti più che mai necessari per un giornale letto soprattutto da giovani, quindi più sottoposto alla concorrenza dei new media.
Avrei strambato anche se avessi diretto La Stampa o Il Resto del Carlino. Gli altri quotidiani sportivi mi hanno lasciato fare. Non hanno cercato di coprire la rotta che abbiamo preso. Comunque, La Gazzetta è da molto tempo il giornale d’accesso, di alfabetizzazione dei giovani italiani. Ora, c’è il luogo comune che Internet ammazzi i quotidiani. Quando sono arrivato facevamo 200mila utenti unici al giorno. Adesso abbiamo una media certificata di 600mila: tre volte tanti. Se fosse vero l’assioma che il web toglie lettori alla carta stampata, La Gazzetta non esisterebbe più. Invece, cresce. Nel 2006 abbiamo pareggiato in edicola i risultati del 2005. Non è un grande risultato, ma per la prima volta abbiamo fermato un’emorragia che durava da molti anni. Sono certo che nel 2007 batterò in edicola il 2006, nonostante sia un anno dispari, cioè senza il traino di Mondiali ed Europei di calcio, o di Olimpiadi. Il giornale aumenta le copie, perché cresce la comunità intorno alla Gazzetta. A questo risultato contribuisce Internet che offre ai lettori un servizio. Il quotidiano ne offre un altro tipo, ma sempre all’interno di un recinto di una comunità garantita da un grande marchio. Internet è anche uno strumento prezioso: se a un sondaggio partecipano 3mila votanti e a un altro 25mila, capisco quale tema interessa di più. Finora il giornale ha aiutato molto Internet, richiamando continuamente Gazzetta.it. Ora dovranno essere loro, con un numero di utenti unici superiore agli acquirenti della Gazzetta, ad aiutare noi. Presto le redazioni si fonderanno. Anzi, al di là dei problemi sindacali, di cui non voglio occuparmi, ogni giornalista deve riuscire a lavorare sui due mezzi. Non è il futuro, è l’attualità. È insensato mandare sei persone a seguire Inter-Milan e aggiungerne un settimo per Internet. Le sei persone si organizzino. Prima di una partita avranno più notizie di qualsiasi altro giornale, perché è certamente il pool più grande che copre la partita. E le diano su Internet. Non è sulle news che vinciamo, ma sul tipo di scrittura e approfondimento che offriamo sul quotidiano.
Lei ha potuto contare sul sostegno della redazione. Anche questa è una conquista non da poco, visto che i due direttori che l’hanno preceduta non ci sono riusciti del tutto.
Non mi trincero nella diplomazia, ma so davvero poco di quanto è successo prima. Per quanto riguarda il mio rapporto con la redazione, io lavoro con molta passione. Sono uno dei pochi che crede ancora in questo mestiere. Ci credo proprio con la pancia. Ogni numero per me è il primo e l’ultimo. Penso di riuscire a comunicare a chi lavora con me che questa non è una finzione. Sto molto attento ai dettagli. Se un lettore inizia a leggere il giornale da pagina 27 e vede che c’è una cagata, ha tutto il diritto di farsi l’idea che tutto sia fatto in maniera approssimativa.
Difficile farsi accettare, anche lei non veniva dal giornalismo sportivo. Sarà stato difficile farsi accettare proprio dai giornalisti della Gazzetta.
Non ne sapevo moltissimo. Ma ho studiato. La redazione l’ha capito. Anche quando sono arrivato a Vanity Fair non sapevo di moda. E ho studiato. Sono anche uno che si alza presto la mattina e arrivo alla riunione avendo letto tutti i giornali, compresi quelli stranieri. Così, sono preparato. Non urlo quasi mai. Anzi, mai. Insisto molto a far ragionare la redazione sul fatto che il mestiere che facciamo è un privilegio. Quindi, va onorato. Da chi fa il giornalista alla Gazzetta dello Sport, il quotidiano sportivo più venduto del mondo, voglio qualche cosa in più. Lo voglio davvero. E guardandomi negli occhi capiscono che non sto scherzando. Certo, in redazione si lavora molto di più, ma c’è anche molta più trasparenza. Tutti conoscono i dati di diffusione come li conosco io. Per me una redazione è davvero una squadra. Se non è omogenea, non è compatta, se non crede nel progetto, puoi essere il direttore più bravo del mondo, ma non puoi far niente. Se guardo certi numeri del giornale sono molto soddisfatto del lavoro della redazione. Perché il lavoro lo fanno loro. Io contribuisco a pensare il giornale. Do le indicazioni di massima. Sono loro, con le loro abilità, con la loro ostinazione e applicazione a mandarlo in edicola. È un metodo che risveglia la voglia – che c’è in chi ha scelto di fare questo mestiere – di andare al di là del consueto, del non fare tutto con lo stampino. In questa maniera arrivano i risultati. Che incoraggiano. Se il giornale perde copie, la depressione è inevitabile. Se ne guadagna – parlo di copie vere vendute in edicola – allora stai vincendo anche tu. Come nel calcio.
Quindi, mai nessun malumore?
Se ho qualche cosa di storto con qualcuno lo dico subito, non faccio clan. Sono molto esplicito. Se a qualcuno sto sul cazzo, sto sul cazzo. Almeno il rapporto è chiaro. Ma ho il massimo rispetto per i colleghi che la pensano diversamente. Lavorano alla Gazzetta da vent’anni o trenta, hanno fatto la storia di questo giornale con Palumbo e Cannavò. So che per loro sono un barbaro al di fuori dei sacri codici con cui sono cresciuti. Cerco di convincerli un po’ alla volta che si può fare in altro modo. Capisco lo shock che gli provoco. Ho dato grande spazio a Cannavò, che è il più grande giornalista sportivo vivente, anche per dare ai lettori un segno di continuità con una storia della Gazzetta che non rinnego affatto.
Una conferma che La Gazzetta sia un primo giornale viene anche dal successo del corso di inglese abbinato al quotidiano.
La Gazzetta è un sistema: c’è un giornale di carta, Internet, il marketing e gli eventi che lavorano a mio stretto contatto. Anche il Giro d’Italia attuale è diverso da quello di due anni fa. Voglio che l’immagine sia coordinata. Oggi abbiamo preso un premio per la campagna di pubblicità di fine 2006 con i Re Magi. Cinque anni fa sarebbe stato impossibile. Il corso d’inglese gioca sul divertimento: il cane, I can. E rientra nello sforzo per affermare che La Gazzetta non è un giornale pornografico, di serie B, da nascondere all’interno del Corriere per non farla vedere. La Gazzetta è l’unico vero tentativo di giornale popolare riuscito che l’Italia abbia mai avuto. Bisogna essere molto orgogliosi di stare in questo giornale. Perché fare una testata popolare è un lusso. È fare giornalismo. In Italia popolare è sinonimo di scadente. Mentre il giornalismo nasce per comunicare a più gente possibile. Continuano a chiamarli mass media, ma fra poco i giornali rischieranno di essere definiti élite media se non cambieranno strada. Per leggerli ci vuole un corso di laurea e molto tempo. La maggior parte della gente non ha la laurea e nemmeno tempo da perdere.
Da qui l’inserimento delle ultime due pagine d’attualità e d’informazione di servizio.
Sì, anche se le prime reazioni dei lettori non sono state tutte positive: “Perché non se ne va?”. “Torni da dove è venuto”. E così via. Durante ‘Moggiopoli’ ho passato un periodo d’inferno. Era normale che accadesse. Era la risposta del pubblico tradizionale, abituato da più o meno 110 anni a un giornale che ha avuto un grande strappo con Palumbo, uno dei più grandi giornalisti italiani, che con la direzione di Candido Cannavò ha raggiunto la stagione della maturità e della grandiosità dello sviluppo del progetto.
Diventando il giornale istituzione dello sport.
Sì. Poi, ha avuto un paio di direzioni brevi, prima del mio arrivo. Sono andato a rileggermi Palumbo. Lui aveva capito la necessità di introdurre l’attualità. Non glielo permisero per un problema di competizione con il Corriere. Però, già lui aveva intuito che un quotidiano venduto allo stesso prezzo degli altri, ma con metà delle pagine non poteva reggere la concorrenza. E poi, i lettori della Gazzetta non sono di serie B. Allora, perché non gli devo dare un’informazione popolare di qualità sull’attualità? Infatti, le ultime due pagine non vengono riempite di agenzie, ma sono il tentativo di spiegare in parole semplici le cose complicate che si trovano sugli altri giornali. C’è una selezione, perché il problema di sovraccarico dell’informazione esiste per tutti. Ora la selezione è molto drastica. Il progetto che trasformerà nella prossima primavera il giornale in tabloid, prevede uno spazio più ampio dedicato all’attualità. Insomma, La Gazzetta sarà ancora di più un primo giornale. I lettori a cui quell’informazione non interessa potranno sempre fermarsi al volley, o all’ippica.
È da quando ha preso le redini della Gazzetta che introduce continuamente novità.
Se funzionano, molte soluzioni che stiamo sperimentando sul progetto full color le inseriamo già nel giornale. Così, i lettori non si troveranno di colpo in mano un giornale completamente diverso.
Dal punto di vista dei contenuti, si sta assistendo a un’inversione di tendenza: per la prima volta la televisione, soprattutto quella tematica, sembra supportare la carta stampata.
La Gazzetta dello Sport è un quotidiano con 3 milioni 600mila lettori, secondo l’Audipress. Repubblica ne ha 3 milioni, il Corriere 2,6. L’Equipe, la seconda testata sportiva europea, è a 2,6 milioni. Insomma, La Gazzetta è un gigante. Ma deve anche decidere di esserlo. Se apro un dibattito sul Milan con il suo ex allenatore Arrigo Sacchi, il Milan è costretto a rispondermi e la televisione deve per forza occuparsene. Io ho 160 giornalisti. Tutti, a parte me, sono i migliori esperti nelle loro materie di competenza. Poi, la chiave è il personaggio. Se ti parlo della straordinaria qualità tecnica delle ragazze del fioretto, devi essere un appassionato di scherma per andare a leggermi. Ma se ti racconto che la Vezzali ha fatto un figlio, si è fermata, è tornata e ha sbranato tutte le altre… Il personaggio avvicina immediatamente chiunque a qualsiasi argomento. Vale per lo sport, vale anche per la finanza e per molti altri argomenti.
Che poi è la formula con cui lei ha rilanciato Vanity Fair.
Sì, puntando su personaggi che raccontassero un po’ di verità. Mi spaventa molto il fantasma del giornalismo politico degli anni Settanta con le veline dei partiti. La seconda pagina – una delle più difficili da fare – le ospitava nelle due lunghe colonne del pastone politico. Un prodotto immangiabile dove ognuno raccontava la verità del proprio Palazzo. A un certo punto, negli anni Ottanta – Mieli ha grandi meriti – sono entrati in scena i retroscenisti per raccontarti la realtà, che non stava nel pastone. Oggi, lo dico sempre a Verderami del Corsera, i retroscena sono diventati come le veline, e il mestiere del retroscenista non esiste più. Quanto è accaduto nella politica non è successo nel mondo della cultura o dello spettacolo. Lì le star hanno continuato a dire nelle interviste che il loro film era andato bene, che avrebbero continuato a lavorare con quel regista, che non parlavano della vita privata, ma tutto procedeva a meraviglia. Io ho deciso di non pubblicare quel tipo di interviste. Siamo andati da chi era disposto a dire come stavano davvero le cose. Il caso più clamoroso, che ha fatto da detonatore, è stata l’intervista in cui Fiorello ha raccontato su Vanity Fair di aver pianto davanti alla televisione alla notizia della morte di Marco Pantani, perché si era reso conto di aver potuto fare la stessa fine. Fiorello ha rilasciato l’intervista mentre stava conducendo il varietà del sabato sera su Raiuno. Tutti sapevano che lui aveva avuto quell’esperienza con la droga, ma in un altro giornale l’avrebbero considerato un caso chiuso. Invece, è diventato una cosa grossa, importante, perché Fiorello ha detto la verità. Ora, proviamo anche con il calcio. Non credo che si tratti della formula di un mago. È il giornalismo che chiede questo.
Si dice che Repubblica mutuò dal giornalismo sportivo il commento politico, ricorrendo al linguaggio di chi copriva lo spogliatoio. Ora è La Gazzetta a cambiare.
Il cosiddetto spogliatoio è diventato uguale per tutto. Io non voglio prendere in giro i lettori. Neppure sul calcio mercato. È facile sparare un nome… Anche in questo caso cerco di avere rispetto di chi ci legge.
Proprio alla fine della campagna acquisti avete rischiato l’incidente diplomatico con il Milan: siete usciti con il titolo che la società rossonera aveva ingaggiato Emerson e il loro sito a dire che era una bugia.
Per understatement non ho voluto montare polemiche, prendendo atto della smentita. Ma due settimane dopo, quando l’ex giocatore del Real è arrivato a Milano, abbiamo titolato ‘Emerson è del Milan’ mettendo in piccolo in coda alla notizia, un ‘cvd’, come volevasi dimostrare’. Ci siamo tolti un capriccio con Adriano Galliani, l’amministratore delegato del Milan. Comunque, non voglio dare la fuffa a chi ci legge, ma cerco di fornirgli qualche notizia più degli altri usando un linguaggio il più coerente possibile con i tempi che viviamo. Continueremo a fare esperimenti. Un giorno ci riusciremo, l’altro no. Ma vale la pena tentare. La gente non parla più come parlano i giornali che sembrano scritti in esperanto. Certo, è più semplice raccontare il calcio che le complessità della politica estera.
Anche nella titolazione siete diventati molto ironici, alla Manifesto.
Nello sport è molto facile fare il titolo enfatico. Esiste anche una grande letteratura al proposito. Ma c’è il rischio del titolo freddo. L’informazione sportiva di Sky è molto buona, ma anche troppo distaccata. Nel fare un quotidiano devo mettere un po’ più di calore. Questo è un giornale di passioni. Anche se bisogna stare attenti a non cadere nella retorica. È difficile trovare la soluzione ottimale e facciamo tanti esperimenti. I giornali devono cercare continuamente il vento e prenderlo da dove spira. Per cui poco alla volta bisogna inserire novità. Quando sono arrivato c’è stata la strambata più forte. Non c’era una situazione facile. E non per responsabilità di qualcuno. Per esempio, a budget non era previsto il full color.
Eravate alla vigilia delle Olimpiadi invernali di Torino ed era annunciata una riforma radicale della Gazzetta?
Sarà stata radicale, ma si trattava pur sempre del restyling di un prodotto in bianco e nero con alcune battute di colore. Il restyling è la panacea di tutti i mali a cui ogni giornale ricorre ogni anno e mezzo, o due anni, quando le cose iniziano a non andare bene. Come dire: l’auto non va, allora rivernicio la carrozzeria. Il full color è un’altra cosa: un investimento da decine di milioni di euro. Cambia tutto.
Vuol dire che anche all’interno del gruppo non credevano poi molto nel prodotto?
No, è che il giornale andava, produceva profitti… E poi, nella cultura italiana lo sport è considerato molto poco, nonostante le passioni che produce. Se un ragazzo entra in una scuola superiore con una copia del Corriere della Sera o di Repubblica è difficile che l’insegnante gli dica di metterlo via. La Gazzetta, invece, viene considerata come Playboy. Ma perché? Sto facendo una battaglia e ho dedicato a questa situazione una serie di editoriali. Lo sport è l’unico linguaggio per parlare ai giovani. Oltretutto, ha in sé alcuni valori. È una situazione in cui si vince o si perde e ti devi abituare a questo. Nello sport ci sono delle regole e se non le rispetti non puoi giocare, e ci vogliono pazienza e lavoro per ottenere risultati. Inoltre, la prima persona con cui ti misuri è te stesso. Negli Usa con lo sport hanno recuperato i ghetti. Le loro scuole sono basate sullo sport. Da una statistica che leggevo oggi risulta che quasi tutti gli studenti sanno più di Internet dei loro professori. Allora, va benissimo raccontare ai ragazzi il Foscolo, ma puoi ancora farlo come dieci o vent’anni fa? Il problema del comunicatore è capire dove si muove l’obiettivo della sua comunicazione. È la calamita che ti deve attrarre.
Ritiene che i giornali non lo facciano?
Il giornale è lì fisso sull’altare, con i giornalisti che nei loro paramenti impartiscono la lezione del giorno. Chi la prende, la prende. E le lettere dei lettori in un angolo, come a recintare i rompicoglioni. Purtroppo non funziona più così. Quando uscì la prima Fiat 500 si poteva solo scegliere tra quattro colori, ora ce ne sono decine di versioni. C’è la 500 per te. Il Time fotografa questa situazione nell’ultima copertina: il personaggio dell’anno è ‘You’. Come diceva Montanelli il padrone è il lettore. E lo sarà sempre di più. In caso contrario non ti comprerà. Se le vendite dei collaterali stanno calando, la pubblicità non cresce e perdi anche lettori, è un disastro.
Lei ha fama di essere un direttore molto rigoroso rispetto all’informazione, ma anche molto amato dal marketing.
Il marketing è una delle parti del sistema. Il marketing non mi chiede di fare una marchetta, ma un aiuto per spingere i prodotti. Se ne vendiamo di più avremo i soldi per aprire nuove pagine a Roma. Il percorso è virtuoso. L’importante è realizzare iniziative coerenti con il messaggio che stai dando. Il corso d’inglese non lo avremmo fatto due anni fa. Ora, anche per l’introduzione dell’attualità, posso propormi come primo giornale e dire a chi mi compra che lui è un lettore di serie A. Per esserlo veramente deve sapere un po’ l’inglese. E noi lo aiutiamo. Il rapporto con il marketing non può essere conflittuale. Ci deve essere un direttore che ha ben chiaro quale è il tracciato – se sbaglia lo si può sempre mandar via – su cui tutti devono muoversi, marketing compreso. Anche la distribuzione è parte essenziale della mia squadra. Se vendiamo un milione di dvd di Maradona, sono un milione che hanno comprato La Gazzetta e almeno 300mila l’hanno fatto per una volta, con la speranza che almeno 20mila mi restino attaccati. Questi successi vanno aiutati con un lancio appropriato, con un sondaggio in cui si chiede qual è il personaggio di cui volete rivedere le gesta. È un lavoro continuo di collegamento.
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Intervista di Carlo Riva