Solo il 5% dei lavoratori è soddisfatto della propria occupazione. È un’emergenza da affrontare con la partecipazione dei lavoratori nei Cda
LOBBY D’AUTORE – Prima Comunicazione, Gennaio-Febbraio 2022
Smart working, dimissioni di massa, nuovi equilibri tra occupazione e vita privata. L’era Covid sta rivoluzionando il mondo del lavoro, disegnando una nuova architettura sociale in continua e spesso imprevedibile mutazione. Caratterizzata da fenomeni che si manifestano con tale velocità e intensità, da spiazzare i sindacati e rendere più difficile i tentativi di ‘governo’ da parte delle lobby organizzate.
Il lavoro a distanza, che all’inizio della pandemia è stato percepito da molti imprenditori come ‘male necessario’, è invece considerato oggi il pilastro di una nuova organizzazione del lavoro in grado di archiviare il modello taylorista, rivelando benefici prima sconosciuti (almeno a queste latitudini) sia sul lato della produttività del lavoro, sia sul lato dei costi aziendali. Ma ancora più sorprendente è un altro fenomeno che sta caratterizzando questa fase storica, quello delle ‘grandi dimissioni’. Nato negli Stati Uniti all’inizio dello scorso anno, il fenomeno si è rapidamente diffuso in Europa: nel secondo trimestre 2021, in Italia, ben mezzo milione di persone ha deciso di lasciare la propria occupazione. Il cambio di vita può avere motivazioni molto diverse, ma rivela in ogni caso l’esistenza in tutto il mondo occidentale di una diffusa e profonda insoddisfazione verso il lavoro.

La questione, nel nostro Paese, potrebbe essere definita una vera e propria emergenza. La prova? Secondo il prestigioso istituto di ricerca Gallup, tra i dipendenti italiani si registra uno dei livelli di soddisfazione del lavoro più bassi al mondo, appena il 5%. In parallelo il nostro Paese è l’unico dell’Unione europea ad aver registrato una significativa diminuzione delle retribuzioni da lavoro dipendente negli ultimi 20 anni, anziché un incremento.
È urgente dunque esplorare nuove strade per ‘rivitalizzare’ il lavoro in Italia. E la più potente è rappresentata dalla costruzione di un sistema di partecipazione dei lavoratori, di cui oggi esistono finalmente le condizioni nel nostro Paese. In dottrina si distinguono tre livelli fondamentali di partecipazione: informativa, economica, strategica. Oggi la prima non basta più: essere informati su strategie e missioni della propria azienda o organizzazione è necessario, ma non sufficiente per costruire un nuovo rapporto con il proprio lavoro. La partecipazione economica è invece un passaggio di rilievo: introdurre una retribuzione aggiuntiva legata ai risultati dell’azienda a favore del numero più ampio possibile di lavoratori, non solo dei manager di vertice, vuol dire rafforzare motivazioni e identità del lavoro.
Ma quel tristissimo dato del 5% di lavoratori soddisfatti della propria occupazione è una montagna terribilmente impervia, che può essere scalata solo accedendo al terzo livello della partecipazione: ovvero coinvolgendo i lavoratori nelle decisioni strategiche di una grande azienda e nella definizione dei valori stessi dell’impresa, che in questo modo può mutare pelle affiancando al legittimo profitto un ‘proposito’ condiviso. Questo modello di partecipazione implica non solo la garanzia per i dipendenti di una rappresentanza nei Cda delle aziende, come nel modello tedesco, ma soprattutto la creazione di luoghi permanenti di confronto tra top management e rappresentanti dei lavoratori su tutte le decisioni rilevanti: investimenti, innovazioni, qualità della vita in azienda, rapporti con i territori in cui opera l’impresa.
Ma oltre ai casi di grandi aziende che in modo volontaristico stanno iniziando ad attuare soluzioni simili, c’è bisogno a mio avviso di un ‘test di sistema’ che funga da riferimento per l’intero Paese. Sotto questo profilo, la strada più intelligente sarebbe quella di ‘sperimentare’ subito il modello partecipativo nelle aziende partecipate dallo Stato, dalle Regioni e dai Comuni: è una strada che la Cisl, ad esempio, ha già mostrato di condividere appieno. Un nuovo modello di lavoro in grado di moltiplicare il coinvolgimento strategico, valoriale ed economico dei lavoratori, e di conseguenza la loro produttività, rientrerebbe pienamente infatti nell’interesse pubblico che giustifica l’uso dei soldi dei contribuenti in attività d’impresa. La prossima rivoluzione del lavoro è davanti ai nostri occhi, attende soltanto qualcuno che abbia il coraggio di realizzarla.