Quei lobbisti Hi-tech che corteggiano l’Ue

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I giganti del web spendono 100 milioni di euro l’anno per tentare di influenzare le politiche digitali del nostro continente. Alla luce del sole

LOBBY D’AUTORE – Prima Comunicazione, Maggio 2022

Quasi 100 milioni di euro l’anno spesi in attività di lobbying per cercare di influenzare le politiche digitali europee. È la potenza di fuoco messa in campo dai giganti planetari del web e dei social, provenienti dalla Silicon Valley americana o dagli altopiani cinesi di Shenzhen, nell’interazione con Commissione e Parlamento Ue: in testa a questa speciale classifica si posizionano Google, Facebook e Microsoft, con più di 5 milioni di spesa annuale a testa in attività ‘certificate’ di lobbying, seguite da Apple, Huawei e Amazon.
Il quadro – piuttosto impressionante – è contenuto nel Report ‘The lobby network. Big tech’s web of influence in the Eu’, a cura di Corporate Europe Observatory e LobbyControl.

Di fronte a questi numeri non ha molto senso, a mio avviso, lanciare generici e demagogici allarmi seguendo la vulgata dei ‘poteri forti globali’ che cercano di catturare le istituzioni europee. Per una serie di motivi razionali. Il primo è che numeri così importanti, paradossalmente, indicano la discreta efficacia della regolamentazione europea del lobbying: finanziamenti tracciati, incontri registrati nelle agende istituzionali, lobbisti inseriti (anche se su base volontaria) in un registro ad hoc. Sarebbe assai più pericolosa una situazione di forte opacità – come in altri sistemi istituzionali, tra cui quello italiano – in cui l’assenza di informazioni cela un sostanziale far west nei rapporti tra pubblico e privato.

La seconda riflessione riguarda lo ‘storico’ dei rapporti tra istituzioni europee e giganti globali del web: rapporti articolati e dialettici (almeno) dai tempi del commissario Mario Monti fino a oggi, in cui gli organi dell’Unione si sono dimostrati i più attivi nel cercare regolamentazioni innovative del mondo Internet e del business dei suoi protagonisti. La terza riflessione, più banale ma ugualmente impattante, riguarda la nazionalità dei giganti del mondo web e tech: i principali player al mondo non sono nati o non hanno i loro headquarter in Europa. E la ‘distanza’ favorisce, di solito, un approccio più oggettivo e imparziale.     

Secondo il Report, sono attualmente 612 le aziende, i gruppi di interesse e le associazioni di imprese che esercitano pressioni sulle politiche dell’economia digitale della Unione europea. “Ciò rende la tecnologia il più grande settore di lobby dell’Ue davanti a farmaceutico, combustibili fossili, finanza e chimica”, si legge nel documento, secondo cui “gli enormi budget per le lobby di big tech hanno un impatto significativo sui decisori politici dell’Ue: regolarmente, lobbisti digitali bussano alla loro porta. L’attività di lobbying sulle proposte per il pacchetto Digital Services fornisce l’esempio perfetto di come l’immenso budget delle aziende fornisca loro un accesso privilegiato: funzionari di alto livello della Commissione hanno tenuto 271 riunioni, il 75% delle quali con lobbisti del settore. Google e Facebook hanno guidato il gruppo”.

Ma è difficile trovare in questi atti, almeno a oggi, prove di una presunta ‘debolezza’ delle istituzioni comunitarie nei confronti dei giganti del web. Il Digital Markets Act e il Digital Services Act, le due proposte di regolamento europeo presentate dalla Commissione a fine 2020, dimostrano infatti l’approccio decisamente pro consumatori dell’Ue. Il 24 marzo scorso è stato definito un accordo tra Parlamento europeo e Consiglio sul testo del Digital Markets Act, che entrerà in vigore nel 2023: in seguito a questa innovazione normativa, le big tech dovranno rimodulare le loro piattaforme di messaggistica per garantire l’interoperabilità con i servizi di aziende più piccole, mentre ai consumatori sarà garantita la possibilità di disinstallare app e software pre impostati dalle case produttrici, in modo da lasciare all’utente più scelta. Inoltre i big player dei mercati digitali dovranno garantire l’accesso ai dati e la trasparenza dei processi di gestione dei messaggi pubblicitari. Inoltre, il 21 gennaio scorso il Parlamento europeo ha approvato la proposta di regolamento Ue Digital Services Act. L’obiettivo è stabilire regole comuni a livello continentale per le piattaforme digitali, ‘costringendole’ a vigilare sui contenuti editoriali e pubblicitari che pubblicano. Se questi nuovi strumenti normativi relativi al mondo digitale sono figli anche del confronto trasparente con i suoi principali operatori, ciò può comportare non solo rischi ma anche opportunità, come la possibilità di migliorare la qualità e l’‘effettività’ delle norme. Evitando il solito gioco, demagogico, della caccia alle streghe.