Massimo Mapelli, autore di ‘Ad alta voce’ (Baldini+Castoldi), spiega le ragioni, e i contenuti, del suo libro, una sorta di saggio autobiografico. Trent’anni di giornalismo vissuti in prima persona
‘Ad alta voce’ è un saggio autobiografico che nasce in primo luogo per non disperdere alcune esperienze molto diverse tra radio, tv e carta stampata.
Intervistare una rockstar come Peter Gabriel ai tempi di Rai Stereo Notte. Raccontare la fine del pontificato di Giovanni Paolo II con le dirette e gli speciali del tg La7 da Piazza San Pietro. Seguire un vertice militare come quello della Nato a Bruxelles in cui l’Occidente decise la reazione agli attacchi dell’11 settembre con l’intervento in Afghanistan.
Grandi fatti, inchieste e casi giudiziari di cui ho avuto la fortuna di occuparmi. Come il caso Calabresi, che cinquant’anni dopo continua a far discutere con la questione del passato che non passa per le estradizioni finora negate dalla giustizia francese. Una vicenda da cui nacque la rubrica dal carcere di Adriano Sofri per il nostro telegiornale.
Oppure di grandi casi di nera come il delitto di Perugia che poi si trasformano in vicende giudiziarie lunghe, controverse e divisive.
Le esperienze in condizioni di maggiore rischio al seguito delle vicende militari e ai poli estremi del pianeta per girare e produrre documentari in Artide e Antartide nel racconto delle conseguenze del Global Warming.
Avvenimenti, tra i tanti, che hanno un comune denominatore. Sono stazioni di un percorso di testimonianza e di crescita che aiutano nella riflessione sul giornalismo che è stato e su quello che verrà.
L’idea era quella di condividere dopo i miei primi trent’anni di lavoro tutto ciò che ho capito sui problemi dell’informazione e dell’editoria.
Il lavoro sul campo da inviato con precise istruzioni per l’uso, e quello dietro le quinte, con responsabilità diverse nella macchina di un telegiornale. Parlare del clima che si respira nelle redazioni. Del rapporto con colleghi, collaboratori, superiori e direttori, senza reticenze.

Un filo conduttore è la travagliata nascita del terzo polo televisivo, di cui ho vissuto in prima persona i passaggi più importanti. A partire dalla discesa in campo di Berlusconi, che ha condizionato la vita politica per più di un quarto di secolo.
Tutto si trasforma, sempre più rapidamente, ma nel lavoro sempre più delicato di verifica delle fonti hanno ancora un grande peso i fondamentali di un giornalismo che non è ancora tramontato.
In primo luogo, la necessaria validazione dei fatti attraverso il ricorso a fonti qualificate, consolidate e confidenziali.
Il giornalismo che per quelli della mia generazione è stato, malgrado tutto, una meravigliosa avventura, appare oggi come una cittadella assediata che ha tirato su il ponte levatoio.
Credo che rispetto ai privilegi del passato è necessario trovare subito soluzioni praticabili sull’equo compenso, la flessibilità e la formazione, per rendere gli operatori dell’informazione next gen liberi dal ricatto di remunerazioni che per i free lance raggiungono livelli del tutto inadeguati, indegni per un Paese civile.
Chi è l’autore
Massimo Mapelli (Bari, 1967) lavora al TG La7 dove ricopre l’incarico di vice-capo della redazione Cronaca e di inviato. Negli ultimi anni si è occupato di importanti inchieste giudiziarie e ha seguito grandi fatti di cronaca in Italia e all’estero. Ha realizzato reportage, interviste e approfondimenti anche per le rubriche e gli speciali del Telegiornale di La7, di cui ha condotto l’edizione della notte e la Rassegna Stampa.