Attraverso l’affermazione del Mediterraneo come modello di riferimento culturale, la Chiesa cerca gli sbocchi per uscire dalla crisi
CONVERGENZA – Prima Comunicazione, Giugno 2022
Sessantasette città mediterranee, da Istanbul a Gerusalemme, da Acireale a Tunisi, grandi e piccole, unite nel sistema delle loro relazioni antiche, nei processi di costruzione culturale diversificata e potente, nell’essere state, molto più degli Stati nazione, la guida di civiltà e sviluppo, la rappresentazione del valore di quel mito più evocato che interpretato e utilizzato che è il Mediterraneo. Questa visione, nata a Firenze negli incontri fra i vescovi del Mediterraneo, ospitalità del sindaco Nardella, diventa ora forma e soggetto politico.
Perché ora, rispetto a qualche anno fa, quando si è cominciato a parlarne, molte cose sono cambiate. E quella che era una calligrafia culturale e religiosa, diviene una necessità e un’urgenza: la pace verso la guerra possibile. Questa è l’idea della Conferenza episcopale italiana che con monsignor Antonino Raspanti guida l’iniziativa. Con l’obbiettivo non di raccontare o raccordare storie, ma di proiettare il Mediterraneo, con la sua principale risorsa, la credibilità storico culturale, nel contesto del conflitto possibile, come punto di mediazione diplomatica, di ricerca delle radici profonde della convivenza e della pace possibile, che sono soprattutto culturali.

Niente a che vedere con il dispiegamento Nato in Europa e le prove di forza in gioco: Mediterraneo vs neoatlantismo, cultura vs nuclearizzazione. Con le città del Mediterraneo che non si chiudono nel loro laghetto, ma si aprono, come è stato nella storia, verso altre grandi civiltà, con cui cercano di dialogare e magari anche progettare: quella russa e soprattutto quella cinese, che è già qui fra noi e in Africa e parla di un nuovo equilibrio eurasiatico nel pianeta.
La Chiesa in questo drammatico tentativo appare sola rispetto alle diplomazie istituzionali bloccate dai giochi di contrapposizione degli schieramenti. E cerca sostegni nella forme sociali più significative. E propone nei tessuti della cultura alleanze con soggetti diversi, nuovi rispetto alla politica tradizionale, che rappresentino mondi del fare e fare cultura. I sindacati rinnovati (la Uil fra tutti, ma non solo), le grandi istituzioni culturali (università, centri di ricerca, accademie) incardinate nella rete delle città, le fondazioni culturali che rappresentano le imprese e che anziché autoconservarsi devono aprirsi e mettersi in gioco.
Gli esempi non mancano: non solo i grandi gruppi industriali che si muovono liberamente e fanno politiche culturali internazionali (come è il caso di Eni nella visione di Mattei sul ruolo dell’impresa come attore dell’interesse nazionale, sin d’allora nella mediazione politica nel Nord Africa), ma anche di soggetti relativamente nuovi che emergono negli spazi Esg, del rapporto fra impresa e interesse delle comunità e dei territori, piccoli o allargati. Ad esempio Azimut che, con le sue strutture – a cominciare da quella amministrata da Monica Liverani – in continuo dialogo fra loro, sviluppa attività di orientamento e di sostegno sociale ed economico in tutta Italia. E Snam che, con il coordinamento di Paola Borromei e Patrizia Rutigliano, interviene a sostenere il quartiere (area Rogoredo di Milano) nel ricucire marginalità e squilibri sociali. E la Fondazione Luigi Rovati che, con la guida di Giovanna Forlanelli, promuove il valore dell’arte e della cultura come utilità sociale e progetta proprio in alleanza con la Cei e la Chiesa una sua declinazione aperta verso il Mediterraneo. Esempio che sta per essere seguito da più soggetti: la cultura che, rispondendo al dettato della nostra Costituzione, viene realizzata per ‘utilità sociale’. O l’utilità sociale che ora diviene l’urgenza della pace
Nella foto i vescovi del Mediterraneo riuniti a Firenze lo scorso 22 febbraio per il secondo appuntamento di ‘Mediterraneo frontiera di pace’.