Chi rispetta gli impegni è visto dalla classe politica come un intralcio.
E gli elettori preferiscono gli scaltri
COMUNICAZIONE POLITICA – Prima Comunicazione, Giugno 2022
Quasi come un orpello polveroso: lealtà. In un Paese che avendo visto tutto crede davvero a poco, la lealtà è interpretata come un difetto per la selezione darwiniana della classe politica. Sei leale? Rispetti gli impegni? Cerchi di uniformare la tua azione alle parole che professi? Errore! Molteplice errore! Lo scafato esperto di arte del governare ti risponderà che questo atteggiamento è dannoso sia per la tua carriera sia per la costruzione del consenso; perché? Perché nel primo caso ti rendi prevedibile: enunci ciò che farai e ti esponi alle imboscate e ai trabocchetti di chi, sapendo con largo anticipo il tuo percorso e il disegno delle tue attività, potrà attenderti lungo lo stesso con tutte le trappole allestite (lecite e non); e nel secondo, in quanto la gran parte dei nostri elettori, nati in una giovane nazione di un antico popolo, considerano l’astuzia e la scaltrezza una dote che merita più attenzione che riprovazione. Ma siamo sicuri che la lealtà intesa come richiamo cavalleresco o di epiche risorgimentali sia solo una struttura retorica della narrazione? Certamente non sono le cronache delle gesta passate una buona giustificazione per elevare una memoria a esempio (siamo tutti sufficientemente consapevoli che essendo difficile ricostruire, con unanimità, un fatto consumatosi la settimana scorsa, qualunque evento realizzatosi qualche centinaio o migliaia di anni fa sia meglio derubricarlo a romanzo). Quando poi al termine ‘lealtà’ si vuole aggiungere una carica morale, l’etica, vera radice infestante della pratica politica, la tossicità del dibattito sfiora vertici di partigianeria insormontabili. Come prassi, coloro che sono ottimi dispensatori di consigli orali sul come ci si dovrebbe comportare sulla scena pubblica e nell’agone politico crollano poi di fronte alla prova pratica della stessa.
In realtà, senza scomodare categorie imprendibili, l’etica della politica è, banalmente, “fare ciò che si dice di fare, e dire ciò che si fa”. È una ragione di miglior efficienza, sinonimo di risparmio di energie; un semplice accordarsi su ciò che si è definito anziché rimandare ogni incontro alle successive infinite limature, riletture, interpretazioni e sofisticherie. Voi direte: è una visione ancora più bucolica e ingenua della ricerca del consenso e, al contrario, probabilmente, questo stato di continua allerta e sospetto accresce l’acutezza e la furbizia delle nostre genti. Può essere, ma mi regalo un timido dubbio. Per quanto sia immaginabile che ogni azione umana necessiti di aggiustamenti e compromessi, il momento che stiamo attraversando fotografa plasticamente una situazione che si è presentata nella storia ogni qualvolta questa si è poi dimostrata prossima al collasso. Il sintomo più evidente? La mobilità politica: eccitatissima e spericolatissima, con il cambio vorticoso di casacche e di idee da parte di una classe dirigente che, non godendo di alcun rapporto con i propri elettori, vive ogni momento del suo esistere come tattica di sopravvivenza (che la porta a diventare alfiere di una tesi e la settimana successiva della sua antitesi).
Un esempio esplicativo per dare spiegazione a questa catena di parole è la genesi del politico Renzi. Un ragazzo, al suo esordio, portatore di novità e di un linguaggio inusuale per l’Italia; solidamente innovatore nella prassi, Renzi, nella sua prima fase, diceva delle cose alle quali seguivano comportamenti coerenti. Mi candido? Se lo farò sarete i primi a saperlo. Perdo? Lo riconosco. Sono stato sconfitto? Mi faccio da parte. Tutto questo appariva, in un Paese allergico agli impegni, quanto meno rivoluzionario. E così sono stati i primi mesi di luna di miele con i suoi elettori che lo portarono a percentuali di consenso bulgaro alle elezioni europee (con un Pd oltre il 40%!). Poi, con un rapido cedimento di quella formula magica, Renzi ha visto il ribaltamento del suo elettorato. Rinunciando alla fatica del presidiare gli impegni, ha cominciato a compromettere quella granitica promessa che, giorno dopo giorno, cominciava a rivelarsi sempre più friabile.
E il capolavoro è stato, in un primo momento, assistere alla trasformazione dei suoi stessi votanti: perduti gli affascinati della prima fase, sono sopraggiunti i convertiti della seconda (folgorati della scaltrezza del Renzi ‘homo italicus’ pieno di pelo sullo stomaco fatto di tattica e spericolatezza; rimaniamo il Paese che, dopo aver coltivato il mito, lo ha regalato nella sua versione contemporanea ai supereroi americani e ha scelto, negli ultimi secoli, nuove favole formative: Arlecchino, Pulcinella e Pinocchio). Comunque tutte chiacchiere, perché gli elettori esprimono il loro giudizio nella sintesi del voto, ma anni di buona o cattiva critica politica non valgono un secondo di complessità del governare (Renzi, rispetto a decine di senza talento, qualche guizzo l’aveva eccome, ma “c’è sempre un rottamatore più rottamatore che ti rottama”). Rimane l’eterna domanda: come ci si può confrontare con il potere, necessario strumento per governare e cambiare il mondo, prima che il potere cambi te?