Al centro del dibattito, mediato da Agcom, tra editori e Google c’è il tema dell’“equo compenso” legato all’uso dei contenuti giornalistici sul motore di ricerca. Notizie e approfondimenti realizzati a caro prezzo (perchè il vero giornalismo costa) dagli editori che non percepirebbero un compenso adeguato per questo uso.
Per anni le testate giornalistiche hanno sollecitato i governi al fine di garantire che le piattaforme online – e in particolare Google – pagassero un “equo compenso” per questo utilizzo. Sforzo culminato in una legislazione entrata in vigore l’anno scorso in Australia e dall’inizio di quest’anno in Canada.
In Europa Google ha firmato o sta per firmare accordi con alcuni editori – sempre i soliti i big in ogni Paese – per definire quali compensi andranno riconosciuti ogni volta che i loro contenuti appariranno nei risultati delle ricerche online.
“Il dibattito ruota attorno al concetto di “divario di valore”, uno squilibrio tra il valore che i fornitori di servizi (Google) ottengono ospitando contenuti di terzi e il valore che i proprietari di tali contenuti (gli editori) percepiscono. Considerando la natura reciprocamente vantaggiosa del rapporto, il problema è determinare se il presunto divario esista davvero e, in caso affermativo, come stabilire criteri oggettivi e misurabili per calcolare un compenso equo”, commenta Marco Lenoci, Chief Operating Officer di Evolution Group (ex Evolution Adv, tech company operante nel settore della pubblicità web), che prosegue: “Il paradosso di fondo si spiega meglio con un’analogia: immaginate di essere proprietari di un hotel, di aver costruito un vostro sito web per pubblicizzarlo e che nel primo anno il tasso di occupazione sia del 10%, dato che pochissime persone sanno dell’esistenza della struttura e ancora meno arrivano organicamente sul vostro nuovo sito. Il secondo anno, aggiungete l’hotel a booking.com per dargli maggiore visibilità e riempire più camere. Booking.com porta la vostra struttura a un tasso di occupazione del 70% e in cambio trattiene il 15% del valore incrementale apportato. Come ulteriore vantaggio secondario, il vostro hotel diventa più popolare e i clienti possono persino decidere di prenotare il loro prossimo viaggio direttamente con voi. In questo contesto avrebbe senso per gli albergatori sostenere che booking.com debba pagare per avere l’hotel sul proprio motore di ricerca? La risposta è no. È uno scambio vantaggioso per tutti”.
Gli editori la pensano diversamente
Il motivo – dice Lenoci – è che la maggior parte di loro non ha adattato il proprio modello di business e la struttura dei costi all’era digitale. Mentre centinaia di migliaia di editori hanno prosperato nell’ecosistema creato da Google, la maggior parte dei giornali tradizionali non ha saputo stare al passo coi tempi e si è aggrappata al sogno di vendere copie cartacee mantenendo le sovvenzioni dei governi locali. Tutto questo senza rendersi conto che il settore ha subito una svolta completamente diversa e che gli utenti hanno modificato le loro aspettative sulla velocità e sulla qualità del consumo di contenuti. Di conseguenza, le testate giornalistiche tradizionali si ritrovano con strutture di costo sovradimensionate e un approccio editoriale che non soddisfa più le aspettative dei lettori.
Qualsiasi conversazione imparziale sul gap del valore – prosegue Lenoci – deve partire da una comprensione condivisa di cosa sia un “ecosistema online”. Nel settore dell’editoria online, l’ecosistema si basa su un meccanismo win-win-win per utenti, inserzionisti, editori e Google. La struttura prospera finché tutte le componenti ne traggono un valore sufficiente e la verità è che questo è stato il caso, senza ombra di dubbio, dell’ecosistema dell’editoria online fin dalla sua nascita. Gli inserzionisti hanno visto migliorare esponenzialmente i costi e l’efficacia delle loro campagne, gli editori hanno accresciuto il loro pubblico ben oltre le aspettative, Google ha trattenuto una percentuale del valore creato e gli utenti hanno goduto di un web gratuito alimentato dalla pubblicità.
Gli editori di notizie – continua Lenoci – tendono a sottovalutare i vantaggi che Google apporta alla loro attività e spesso sopravvalutano la loro base organica di lettori fedeli. Questa idea sbagliata si basa su una nostalgia profondamente radicata dell’influenza politica che avevano nella società fino a 20 anni fa, unita a una lettura imprecisa delle loro fonti di traffico online. A titolo di esempio prenderò un sito di notizie specializzato di medie dimensioni (rappresentativo della grande maggioranza dei siti di notizie in Europa). Qui di seguito è riportata la loro ripartizione del traffico, come riportato da Google Analytics:

Questa panoramica parziale e di alto livello delle fonti di traffico mostra già come Google rappresenti il 50% del traffico totale che arriva sul sito web dell’editore in qualsiasi momento. Mostra anche quanto gli editori di notizie dipendano da Google come canale di distribuzione dei loro contenuti. Tuttavia, il grafico lascia agli editori l’illusione che esista ancora un’ampia e fedele base di lettori che approdano direttamente sul loro sito web. Purtroppo per loro non è così. La realtà è ben peggiore di quanto riportato nel grafico. Facendo doppio clic sulla sezione “traffico diretto” del rapporto di Google Analytics ed esaminando gli url più visitati, ci si rende subito conto che il traffico diretto effettivo si limita alla home page e che la maggior parte di quello riportato come traffico diretto proviene ancora una volta da Google. Per avere un quadro completo, gli editori di notizie devono aprire lo strumento Search Console, guardare il traffico generato da Google Discover e sottrarre quel numero dal traffico diretto che vedono nell’interfaccia di Google Analytics. Così facendo, si scopre la dura realtà:

Oggi il traffico che gli editori di notizie ottengono da Google varia dal 70% al 95%. Il motivo è molto semplice: nel mondo di oggi, i mass media non dettano più il tipo di contenuti che gli utenti dovrebbero leggere, ma sono gli utenti a decidere di quali contenuti fruire in qualsiasi momento, ed è proprio questo che Google (e Meta) fanno così bene con i loro modelli di intelligenza artificiale e apprendimento automatico. Algoritmi avanzati decidono quali contenuti esporre agli utenti, a prescindere (per la maggior parte) da chi sia il produttore dei contenuti. E questo non cambierà.
Google crea dipendenza anche sul fronte della pubblicità
Il traffico è solo una parte del valore che Google apporta agli editori, commenta Marco Lenoci, Chief Operating Officer di Evolution Group. In passato, gli editori di notizie generavano entrate pubblicitarie con un valore discrezionale basato sui lettori dei giornali e sulla reputazione del loro marchio sul mercato. I modelli pubblicitari erano completamente scollegati da qualsiasi indicatore di performance e ciò consentiva agli editori di sostenere strutture di costo pesanti facendo pagare troppo gli inserzionisti. Google ha portato chiarezza e tracciabilità, attirando centinaia di migliaia di inserzionisti con la promessa di rendere più efficiente il processo pubblicitario. Oggi Google rappresenta il 60%-70% dei ricavi degli editori di notizie e il mercato continua a consolidarsi in questa direzione. La conclusione di questa istantanea è che il valore che Google apporta agli editori di notizie è così alto che se da un giorno all’altro chiudesse i suoi algoritmi di ricerca gli editori di notizie si ritroverebbero con solo una piccola parte del loro pubblico e, a loro volta, perderebbero la maggior parte dei loro introiti pubblicitari.
La missione di Google è organizzare le informazioni del mondo e renderle universalmente accessibili e utili. Intorno a questo ha costruito un’attività da 260 miliardi di dollari, basata principalmente sulla pubblicità. Non c’è dubbio che gli editori di notizie abbiano contribuito a realizzare quest’obiettivo, condividendo i loro contenuti con il motore di ricerca prima e con le piattaforme Google News e Google Discover poi.

Anche Google ha bisogno degli editori?
L’obiettivo principale di Google – dice Marco Lenoci – è vincere la battaglia per l’attenzione degli utenti e contrastare l’ascesa di social network come TikTok, Meta e altri, spiega il chief Operating Officer di Evolution Group. Le piattaforme social hanno guadagnato terreno nel corso degli anni e le persone trascorrono in media 2.27 ore al giorno su questi canali, cannibalizzando così il tempo trascorso su YouTube, Google Search e altre piattaforme proprietarie. Indirizzando il traffico verso gli editori di notizie attraverso il motore di ricerca, le piattaforme Google News e Google Discover, Google mantiene gli utenti all’interno di un ecosistema “amico” in cui può ancora monetizzare attraverso le sue piattaforme GAM/AdSense/AdExchange. Google retrocede il 70%-80% dei ricavi pubblicitari agli editori e trattiene una commissione del 20%-30%, il che è sempre meglio che perdere questi utenti a favore delle piattaforme social, dove non può monetizzare.
“Il dibattito sull‘equo compenso è basato su un equivoco“
L’argomentazione che Google ricavi un’enorme quantità di ricavi dalle “parole chiave delle notizie” che gli inserzionisti acquistano sulla piattaforma “Google Ads” è probabilmente il più grande equivoco a cui si aggrappano sia gli editori di notizie sia le autorità di regolamentazione per determinare il valore di “equo compenso”. Secondo Marco Lenoci la realtà è che solo l’1% dei budget pubblicitari è destinato a parole chiave legate alle notizie. Il dibattito in corso in Italia è piuttosto eloquente da questo punto di vista. Gli editori di notizie tradizionali chiedono che la maggior parte (70%-80%) dei ricavi totali generati da Google sulle parole chiave relative alle notizie (quel famoso 1%) venga restituita agli editori (contro un valore medio di riferimento del 2%-3% concordato in altri Paesi). Non c’è alcun fondamento logico dietro questa richiesta – prosegue Lenoci – e sembra davvero un tentativo banale di farsi risarcire da Google per le perdite subite, invece di chiedere a Google un valore equo. Se questa richiesta rimarrà valida, è inevitabile che le trattative si interrompano e che la questione si sposti in tribunale.
Il dibattito in corso sulla determinazione del “equo compenso” che Google dovrebbe corrispondere agli editori di notizie per utilizzare i loro contenuti nel motore di ricerca è a dir poco surreale. Google – prosegue Lenoci – è disposta a pagare un valore nominale agli editori di notizie per placare le autorità di regolamentazione, piuttosto che per vera convinzione, e non ha alcun incentivo a continuare questa disputa infinita con il mondo dell’editoria ed i governi nazionali. Tuttavia, non può e non vuole accettare che gli editori scambino la buona volontà per un’ammissione di colpa e usino la loro influenza politica per ottenere una quantità sproporzionata di denaro.
“Uno o due criteri misurabili e inclusivi”
Secondo Marco Lenoci, Chief Operating Officer di Evolution Group occorre stabilire uno/due criteri misurabili e inclusivi, evitando tentativi di rendere Google responsabile non solo per la visualizzazione di contenuti di terzi sul motore di ricerca, ma anche per sanare i bilanci degli editori di notizie tradizionali che non riescono a gestire attività redditizie. Nel definire i criteri, il mio punto di vista è che l’audience sia la metrica che definisce veramente il valore di una pubblicazione di notizie nel web moderno, in quanto rappresenta ciò che gli utenti scelgono di leggere. La storia, la reputazione del marchio, i costi e il numero di giornalisti non sono più parametri rilevanti. È giunto il momento – commenta Lenoci – di accettare il fatto che il web sia per sua stessa natura libero e democratico e che raccolga al suo interno una pluralità di pubblicazioni verticali che ogni giorno creano contenuti qualitativi e rilevanti per gli utenti. Il web non è appannaggio di pochi editori, è di tutti e così continuerà a essere. Comprendere il funzionamento del web moderno è l’unico modo che gli editori tradizionali hanno di accelerare il processo irreversibile di adeguamento delle strutture dei costi e dei modelli di business al mondo reale e imparare a diventare attori digitali di successo. Questo non significa che il giornalismo di qualità stia per finire, ma solo che non possiamo aspettarci che Google sia il giudice ultimo del significato di qualità. L’utente è il giudice ultimo e, in effetti, il numero di abbonamenti è in aumento in tutto il mondo per le pubblicazioni che si distinguono sul mercato.
Piuttosto che chiedere a Google di premiare la qualità, la domanda da porsi è come trasmettere la qualità agli utenti in modo che la percepiscano effettivamente.
La strada da seguire – conclude Lenoci – è quella di includere (anziché escludere) gli attori digitali nel dibattito e di negoziare in buona fede con Google, riconoscendo il suo ruolo di partner a lungo termine dell’industria dell’informazione, anziché assumere una posizione ostile che può solo minare il buon esito dei negoziati.