Qualcuno ha visto l’immaginario?

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I media non sono più in grado di ‘raccontare’. Il cinema propone storie di umanità, dedicandosi a nostalgia e sentimenti. E Cronenberg rovescia gli schemi dominanti

CONVERGENZA – Prima Comunicazione, Settembre 2022

Il Covid non finisce mai, mentre una guerra potrebbe cominciare. Un clima sociale sorpreso e solitario reagisce nelle città con una diffusione di comportamenti poco sensati, per addensamenti ipertrofici di gruppi (non solo giovani) fini a se stessi, un rumore di fondo crescente di motori e voci e una sostanziale distrazione rispetto a ciò che li circonda, frutto di quello che una volta si chiamava immaginario collettivo, dalla politica elettorale al calcio. Nella società del rischio e dell’incognito, sembra che la capacità di rappresentare e indirizzare questo immaginario assente ha evidenza nelle agenzie classiche di formazione dell’immaginario, a cominciare dai media.

La capacità di racconto si sta annullando in meccanismi vaghi e involuti: cosa racconto a chi? Sembra essere il quesito del sistema di vecchi e nuovi media alla ricerca di qualcosa che non c’è. Il cinema per esempio. Se in questo lungo periodo di sospensione entriamo in una sala cinematografica (sempre semideserta, altro che luogo di aggregazione) troviamo sempre e soltanto storie di intimità e sentimenti, di tempi andati e di luoghi appartati (giorni d’estate, nostalgia, vita sentimentale, tanto per fare qualche esempio), un ripiegamento sull’essenza dei sentimenti e sul plot delle storie d’amore. Una comprensibile reazione, intercettata dai narratori, del ‘buco’ affettivo e della solitudine lasciata dal Covid. Se non che tutto questo avviene in assenza di contemporaneità, in mondi periferici e lontani. Questa rappresentazione della non contemporaneità è accentuata proprio dalla solitudine di un mondo che sembra storicizzare la stessa umanità dei rapporti fra uomini e donne e dei sentimenti. Difficile che il ripiegamento sul nostalgico e il sentimentale del passato possa produrre un nuovo immaginario e che ci sia qualcosa che possa riempire il vuoto delle sale che ospitano questa narrazione all’indietro.

E difficile che oggi possa nascere una scuola narrativa che costruisca come nel Dopoguerra, negli anni Settanta e Ottanta, e poi ancora fino a dopo il Duemila, visioni di futuro, fiction ad alti effetti speciali, plot di genere, gialli e commedie.

Tutto questo (ma solo in parte e i numeri lo dimostrano) è finito nella serialità televisiva che delinea un confine secco e privato nel rapportarsi alle immagini. Il meccanicismo televisivo ingaggia pubblico e attenzione, ma per la stessa struttura dello schermo disincanta il modello ‘scope’ dell’immaginario che è grande, aperto e collettivo. La narrazione si sposta in un angolo e consola (non anticipa) un mondo solitario e in attesa. Quindi sospeso. E in questa sospensione si possono creare derivate, antinomie, visioni laterali: niente è più lineare, tutto può essere incoerente e contraddittorio perché il pubblico è inafferrabile e le storie sono raccontate soprattutto per chi le scrive. È il caso di Cronenberg. Negli stessi giorni e nelle stesse sale dove si celebra la nostalgia sentimentale esce ‘Crimes of the future’, esattamente il rovesciamento di questa nostalgia. È un mondo appunto futuro, fatto di violenze chirurgiche, che diventano arte, sui corpi, di effrazioni ripugnanti sul rapporto uomo-macchina in un clima lugubre e ‘finale’ in cui eros e morte collidono e poi coincidono.

Qui la visione del mondo distopico di Cronenberg, da ‘La mosca’ a ‘Crash’, continua e si radicalizza nelle espressioni più estreme di manipolazione visiva. È l’immaginario di Cronenberg, certo: solo che nei precedenti film c’erano incubo o sogno. Oggi diventa un’immagine diretta, ripugnante e oscura, di una contemporaneità che si nasconde, dietro le nostalgie, nella nostra, sospesa ma reale, umanità.