Diamo un futuro al passato di Roma

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Una proposta legata alla candidatura della città a ospitare nel 2030 l’Expo: chiedere ai protagonisti dell’arte contemporanea di costruire un nuovo Colosso

COMUNICAZIONE POLITICA – Prima Comunicazione, Settembre 2022

Mi concedo un conflitto d’interessi per ragioni civiche e dedico questa rubrica al racconto di un’idea che in questi giorni abbiamo lanciato con Antonio Romano, fondatore di Inarea, su un’autorevole testata del mondo dell’arte (Il Giornale dell’Arte). È una proposta legata alla nostra capitale e a un evento che Roma si candida a ospitare per il 2030: l’Expo. L’Expo è un’esposizione planetaria che rappresenta un’opportunità irrinunciabile per una città definita ‘eterna’. L’Expo è ancora oggi quell’evento che prova a mostrare il meglio delle prospettive del mondo e dei suoi orizzonti. È una vetrina e, come tutte le vetrine, ha bisogno d’immagini e fascinazioni capaci di smuovere la distrazione del pubblico e di accendervi una curiosità. Roma, per la tragedia della Seconda guerra mondiale, vide svanire quello del 1942 a lei assegnato (di cui in eredità rimase alla città il quartiere dell’Eur, ovvero Esposizione Universale Roma).

Spesso gli Expo si sono rivelati occasioni per lanciare simboli che hanno segnato il destino visivo di un luogo e la sua immagine. Magari, si è trattato di intuizioni pensate per uno scopo, una funzione e si sono poi ritrovate a rappresentarne altre. Alla Parigi del 1889, per esempio, non mancava nulla per sentirsi la Parigi già conosciuta e ammirata dal mondo. Aveva incontrato, da tempo, molto del suo destino e si ritrovava al centro degli entusiasmi tecnologici e intellettuali delle nuove scoperte industriali. Fu in quell’occasione che nacque l’idea di dare vita a un emblema, a una spettacolarizzazione che rendesse memorabile l’entrata dell’Expo parigino. E fu la torre Eiffel. Veniamo ora al nostro 2030. Il comitato promotore ha presentato un efficace appello per motivare le ragioni di un’assegnazione alla nostra capitale: “… mettere al centro dell’attenzione l’uomo e la sua capacità di reinventare il proprio ‘habitat’, la città, bilanciando sviluppo e sostenibilità ambientale. (…) Roma vuole essere il centro di questo nuovo modello di città: inclusivo, interconnesso, sostenibile e condiviso”. Un programma coincidente con la vocazione di una città che, se non ha dato vita all’Occidente, lo ha certamente allevato e diffuso. Roma disegna il calendario in cui viviamo, intride la semantica del vocabolario di mezzo mondo con le sue parole, ispira con un suo format architettonico il modo di concepire gli spazi di relazione urbana di un’infinità di città, così come le nazioni di diversi continenti si ritroveranno nelle costruzioni immateriali e sociali del diritto qui concepito.

C’è un luogo che, nell’infinito patrimonio della capitale, gode di una notorietà planetaria: il Colosseo. Oltre a essere il monumento più visitato d’Italia è univocamente riconosciuto come il più rappresentativo del nostro Paese nel mondo. Incredibilmente, questo nome così popolare, è il frutto di una migrazione di senso per cui l’appellativo che definisce un qualcosa che è ancora sotto i nostri occhi, l’Anfiteatro Flavio, lo fa per conto di un qualcosa che non esiste più: il Colosso. Il suo nome è legato infatti alla statua colossale voluta da Nerone e, successivamente, fatta collocare da Adriano sul piano dello stesso; un basamento ne elevava l’altezza per farla allineare con quella dello stadio. Da quel momento, la forza dell’immagine cancellò il nome originale dell’arena e si perpetuò anche al di là della scomparsa della stessa statua, trasformando lo stadio nel Colosseo.

Non è stato l’unico Colosso della storia, anzi. Almeno due di questi giganteschi simulacri facevano parte delle ‘sette meraviglie’ dell’antichità. Poi, quelle forme e imitazioni hanno cominciato a viaggiare per i continenti e a diffondersi tra i popoli. Qual è dunque l’idea? Perché per il 2030 non alimentiamo la scelta di avere proposto l’uomo al centro del racconto? Roma è la città di Vitruvio, siamo il Paese del Rinascimento, crasi di questa centralità dell’uomo e della riscoperta della classicità.

Perché non dare la possibilità, oggi, di rivivere l’ombra di quel gigantismo offrendo a una giuria internazionale l’opportunità di selezionare grandi nomi protagonisti dell’arte contemporanea (da Hirst a Koons, da Kiefer a Cattelan…) capaci di realizzare un’opera temporanea? Non avrebbero l’obbligo dell’imitazione, non essendoci arrivate del Colosso altre immagini che quelle ricavate da imprecise monete. L’opera potrebbe declinare i valori di sostenibilità nelle soluzioni tecniche e ingegneristiche costruttive più all’avanguardia, consentendo ai visitatori di accedere al suo interno e godere di prospettive mai viste dei Fori. E a decidere quale scegliere tra le opere selezionate dalla giuria, potrebbe essere una platea planetaria – di studenti in arti visive, architettoniche e artistiche – a celebrazione di un mondo sempre più digitale e connesso.

Sarebbe una sintesi di quella potente proposta di candidatura che cita “l’evoluzione e la rigenerazione come capacità di innovarsi e trasformarsi per risorgere e guardare avanti, a partire dal proprio passato”. Un Colosso della Rinascita per riconsegnare al mondo un’immagine che racconti la forza e la storia di questa città eterna.

(nella foto Uno dei due lati di una moneta neroniana. È visibile l’immagine più antica a noi conosciuta del Colossus Neronis)