Con la Milano Music Week alle porte, si avvicina anche l’annuale appuntamento di Linecheck, il principale polo aggregatore e promulgatore di innovazione e sviluppo per l’industria musicale italiana. L’edizione di quest’anno si terrà dal 22 al 26 novembre a Base Milano ed è intitolata In Exile, una ricerca sull’esilio in senso lato: “l’esilio della musica dopo due anni di silenzio, l’esilio dagli altri dopo due anni di precauzione, l’esilio dalle tante patrie che abitiamo, dopo due anni di limitazione degli spostamenti,” recita il manifesto sul sito.
Molto più che un festival, Linecheck si sviluppa sia sulla dimensione della conferenza/meeting che in quello della proposta musicale, pensando dunque in maniera trasversale all’ecosistema della musica in Italia, fatto di artisti, fruitori, appassionati, investitori, brand, istituzioni e ogni tipo di addetti ai lavori. Lanciato nel 2015 sulla scia di Expo e come segno dell’internazionalizzazione di Milano nel panorama musicale, Linecheck arriva alla sua ottava edizione con cinque giorni ricchi di iniziative: oltre 70 eventi—inclusi panel e workshop durante il giorno—250 relatori e relatrici del settore e più di 30 artisti internazionali a esibirsi durante le serate. KMRU, Mysie, La Niña, Nziria, Coucou Chloe, Marina Herlop sono solo alcuni dei nomi che compongono la lineup musicale di Linecheck 2022.
Abbiamo intervistato il direttore generale Dino Lupelli, alla guida dell’azienda produttrice di Linecheck, Music Innovation Hub, prima “impresa sociale” SpA italiana, nonché società di consulenza per le professioni musicali e le istituzioni culturali.

Come definirebbe Linecheck?
Linecheck è una music conference. È un modello a cui abbiamo iniziato a lavorare 8 anni fa e si rifà ad altre music conference internazionali. Si tratta di momenti di incontro per gli addetti ai lavori della filiera musicale, di approfondimento sui temi del momento o di attività di formazione e aggiornamento professionale legati all’industria. È la più importante music conference italiana, riconosciuta a livello internazionale, e main content partner della Milano Music Week.
La parte di festival di Linecheck è la parte dove si presentano tutta una serie di progetti internazionali nuovi per il mercato italiano, e vengono offerti al pubblico, principalmente composto da music lovers attenti alle novità del mercato. Non ci sono mai nomi particolarmente grossi: è un festival boutique, piccolo sul piano dei numeri, ma che presenta artisti che di solito tendono ad affermarsi sul mercato negli anni seguenti.
Che direzione vuole dare Linecheck alla music industry?
I temi su cui annualmente andiamo più verticali sono quelli che tendono a portare la music industry verso i grandi cambiamenti della società. Uno dei cambiamenti principali riguarda il ruolo del brand, e la tendenza a valorizzarne l’attivismo. Si parla spesso di greenwashing e social washing: per noi è importante sottolineare che all’interno di Linecheck la dimensione attivista dei brand ha estremo valore. Il brand activism legato alla musica può fare la differenza nel momento in cui i brand concepiscono la musica come attivatore del cambiamento sociale.
Questa è la direzione di Linecheck degli ultimi anni. Quest’anno presenteremo il protocollo con cui abbiamo lavorato con Music Innovation Hub insieme ad aziende come Enit, GSE e partner privati che sottolineano l’importanza della sostenibilità nella produzione degli eventi. C’è il tema della gender balance, che da anni portiamo avanti con la rete Keychange. Ciò che ci teniamo a sottolineare è come i brand possano diventare attivatori nei territori: a questo proposito presenteremo una case history di Red Bull su un progetto a Palermo.
Più in generale, quello che Linecheck afferma è che l’industria musicale si dà gli stessi obiettivi delle altre industrie, con cui tutti si devono confrontare. Per noi questi sono gli elementi di valore attorno a cui ruota la parte di conferenze, che costituiscono il nucleo di Linecheck. La parte festival cresce e si stabilizza ogni anno, ma è quella meeting a essere il cuore della manifestazione. In questo cuore battono i sistemi di valori più nuovi e interessanti che ci siano, che guardano alla musica come strumento di cambiamento sociale, all’innovazione della filiera, al rapporto con le nuove tecnologie, l’internazionalizzazione dei mercati. Si parla di NFT e metaverso in una prospettiva più equa, ovvero i diritti degli artisti, dei fruitori e delle multinazionali.

Siete particolarmente attenti a diversità e inclusività.
Da diversi anni abbiamo firmato un accordo con la rete Keychange, che prevede l’impegno del festival a perseguire la parità assoluta di genere nella proposta artistica e in quella di conference. Siamo molto attenti all’inclusività. Linecheck all’interno del progetto Keychange, ogni anno dà la possibilità a tre artisti e tre innovatrici della filiera musicale di prendere parte a un programma finanziato dall’Unione Europea che permetterà loro di viaggiare e presenziare ad altre music conference europee. Questo lavoro sta dando risultati significativi, in quanto aumenta continuamente la visibilità per le minoranze di genere all’interno di queste manifestazioni. Il nostro è un impegno concreto, che si tramuta in valorizzazione di realtà che già esistono attraverso visibilità e networking su scala europea.
Il festival quest’anno ha come tema quello dell’esilio, In Exile.
Il concetto di esilio è polisemantico, nel senso che va in diverse direzioni. C’è l’esilio creativo, che è quello dell’artista che, per necessità, decide di occuparsi solo della sua arte, senza connettersi a ciò che gli sta attorno. Esiste anche l’esilio più esteso, in cui tanti di noi possiamo identificarci. È un filo conduttore che è stato deciso prima dell’inizio della guerra in Ucraina, perciò adesso si riadatta anche all’esilio da una guerra alle nostre porte. La dimensione dell’esilio può essere vista come un sentire che molti di noi hanno in questo momento storico, a prescindere dall’essere fisicamente esiliati. È una dimensione dello spirito: sentirsi lontani da logiche di mercato, esserne scarsamente protagonisti. Penso all’artista che carica le sue tracce su Spotify o TikTok e non sa che ne sarà di loro.
È una nozione affascinante che esploriamo in ogni direzione. Milano stessa diventa il luogo di esilio per molte persone che ci si trasferiscono, diventando una porta a metà strada tra il nord Europa e il Mediterraneo.

Che rapporto instaura il festival con i brand?
Linecheck stimola i brand a prendersi cura della propria posizione e impatto nella società. Ogni brand deve rendersi conto della sua responsabilità, rispetto al sistema di valori che promuove e agli effetti concreti che ha all’interno della società in cui opera. Se un brand evidenzia solo se stesso, e all’interno delle sue attivazioni non si creano delle condizioni di reale corrispondenza ai bisogni delle persone, tali operazioni sono inutili. L’attivismo del brand è interessante perché gli fa sposare valori che sono d’interesse comune. Mai come oggi noi come consumatori e/o soggetti intermedi abbiamo necessità di andare nella stessa direzione del brand. Ci proponiamo lo stesso obiettivo: un consumo più consapevole e responsabile, più in linea col tema dell’economia circolare, funzionali alla valorizzazione del talento e del territorio, all’utilizzo concreto di uno spazio.
Quali sono i riferimenti esteri che ha Linecheck?
Ci sono modelli interessanti all’estero, perlopiù privati. Il primo che cito è UK Music in Inghilterra, ovvero un tavolo che riunisce tutte le organizzazioni che rappresentano la filiera in grado di interagire a livello centrale. All’interno della filiera ciò significa che i grossi player si assumono il compito di competere tra loro, ma anche di sostenere le realtà più piccole. Un altro progetto inglese di riferimento è The Music Trust dove una parte degli incassi delle grandi multinazionali vanno a sostenere locali e club più piccoli, perché è lì che nascono le scene musicali più fresche. Sono proprio i locali piccoli ad essere più ricchi di fermento artistico e in grado di generare ricambio dal basso funzionale allo sviluppo organico della filiera.
Anche il francese Centre National de la Musique è un ottimo esempio di realtà istituzionale che guarda all’intera filiera. CNM riunisce tutti gli uffici che si occupano di promozione della musica su diversi profili. Un altro modello privato interessante, anche se più frastagliato, è quello canadese di Factor, che va in sostegno alla carriera degli artisti.

Come si rende sostenibile il lavoro all’interno dell’industria musicale in un contesto storico ed economico così precario specie dopo la pandemia che ha colpito duramente il comparto?
È fondamentale capire che l’industria musicale va tenuta insieme a livello istituzionale. Istituzionalmente si devono creare le condizioni per cui esista una rappresentatività unica—che al momento non esiste—di tutta la filiera. Che sia discografici, artisti, editori, organizzatori di musica dal vivo o startup tecnologiche: esiste la necessità di avere un’unica voce che rappresenti gli interessi di tutta questa filiera. Questo soggetto dovrebbe recuperare un rapporto più forte con le istituzioni, quindi con il governo, per non ritrovarsi più come durante la pandemia senza un monitoraggio concreto dello stato di salute economica dell’industria e la sua composizione. L’obiettivo è far conoscere bene le necessità del nostro comparto. L’impegno che tutti all’interno dell’industria dovremmo prendere è quello di entrare in un meccanismo di legalità, perché in sua assenza non vengono garantiti diritti e non c’è possibilità di lavoro.
Che futuro vede per l’industria musicale italiana ed europea?
L’industria musicale ha una caratteristica molto significativa, quella di produrre poco impatto. Non è un’industria di tipo estrattivo—non si utilizzano risorse naturali al netto dei consumi di energia, che però possono essere ridotti o compensati. Rispetto alle altre industrie, è un’industria che produce benessere, qualità della vita. La musica—discografica, dal vivo o tecnologica—è una delle poche industrie che ha una crescita a due cifre: assieme a questa crescita c’è anche la potenzialità equivalente di generare nuova occupazione. Il tutto senza produrre impatto, che è un aspetto estremamente promettente. I rischi stanno nelle concentrazioni di questa industria in poche multinazionali, che esercitano un controllo oligopolistico sul mercato. Un modello ideale di sviluppo per l’industria musicale dovrebbe contenere più diversità, maggior decentramento ed essere genericamente meno rigido.
Di positivo c’è che l’industria musicale ha ripreso a crescere e continuerà a farlo, ciò la renderà una garanzia su cui puntare per lo sviluppo sostenibile. Questo vale per la musica come per altre forme di arte e cultura. L’aspetto negativo è che si deve cercare di gestire lo sviluppo garantendone l’accesso dal basso, il decentramento e una rappresentatività più ampia. In questo momento nella music industry sono solo multinazionali internazionali—nessuna italiana—ad essere le grandi protagoniste del mercato. Senza nulla togliere a queste realtà, probabilmente il pluralismo è ciò che renderebbe l’industria musicale più forte.
Non dovremmo dimenticarci di quanto successo durante la pandemia, e provare a mettere da parte risorse utili in caso di crisi, di modo da garantire la prosecuzione del lavoro a chi si occupa del nostro mestiere. Se la musica viene lasciata solo al mercato, si polarizza e diventano pochi i soggetti che gestiscono tutto, e ogni iniziativa avverrà in ottica di mercato. Se invece la musica non è un semplice prodotto, ma un elemento che garantisce la qualità e rappresentatività, allora va incentivata soprattutto nelle realtà più distanti da centri come Milano o le grandi città.