Giorgia Meloni (Foto Ansa)

La nuova politica licenzia l’elettorato

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Il non voto riguarda quasi il 60% degli elettori (e non l’apparente 39%). Stiamo andando verso la sparizione della democrazia rappresentativa

CONVERGENZA – Prima Comunicazione, Ottobre 2022

Mentre la guerra continua e l’escalation atomica non sembra impossibile, i nostri media pensano ad altro e si concentrano sulle novità post elettorali della destra vittoriosa e della nuova premier Giorgia Meloni. Novità talmente importanti (attese e preannunciate da tempo) da giustificare analisi senza capo né coda, che vanno da interpretazioni di ipotetici blocchi sociali a formule cervellotiche di alleanze, dai contenuti di ipotetici e inesistenti programmi a costruzioni sul divenire della personalità politica e umana di Giorgia Meloni che è una donna, che deve risolvere il problema ‘postfascista’ di Fdi, che deve mediare fra alleati deboli, Draghi e sé stessa.

Il livello di confusione è alto e il balbettio fra approccio ‘politologico’ e gossip mondaneggiante sulle persone è crescente. E senza il confronto con un antagonista, la sinistra, che al momento non c’è, questo balbettio diventa una sorta di grande scivolamento a zig zag su quello che è un fenomeno che semplicemente accade.

Peccato che la vera questione che sta dietro a questo effetto giroscopio al negativo, non venga ripresa – per quella che è – da nessuno; e non è una questione sociologica bensì politica, riferibile al tema del non voto o dell’astensionismo. Come dimostrano le analisi approfondite, come quelle, riprese dal Corriere della Sera, del professor Marco Valbruzzi dell’università Federico II di Napoli: il non voto riguarda quasi il 60% degli elettori, e non l’apparente e già alto 39%. A ogni turno elettorale la crescita di questa area, che è sociale, culturale e politica, varia fra il 5% e l’8%, inglobando integralmente alcuni pezzi di elettorato come i giovani, soprattutto al primo voto.

La questione politica dell’astensionismo ha diversi effetti fra il macro e lo specifico. Prima di tutto, andiamo verso la sparizione della categoria stessa di democrazia rappresentativa. Ormai chi non è rappresentato supera chi sarebbe ‘rappresentato’. Sancisce poi il disvalore di chi fa politica: chi la fa oggi è marginale rispetto al nucleo culturale ed economico che è legittimato socialmente a fare e decidere. E questo riguarda soprattutto i giovani (vedi anche la ricerca Iulm del Centro Studi sulla democrazia liberale di cui ho scritto nel numero di luglio-agosto), che non solo disconoscono ma disprezzano chi fa politica, come rappresentativo di quella ‘ignorantocrazia’ che pervade oggi il fare delle cose pubbliche e che è la vera questione da risolvere. E, ancora, venendo al micro, ci si chiede come è possibile oggi, in questa situazione di assenza del rapporto fra politica eletta (destra o sinistra non importa) e corpi sociali, pensare a un qualsiasi governo che rappresenti e che ‘tenga’. A meno di non pensare a forme postmoderne di dittature sostanziali, governi generati da una debolezza strutturale, che finiranno come sistemi socialmente sfocati e destinati a non contare nulla. E ad allontanare ulteriormente la politica da un elettorato che, stando così le tendenze, al prossimo passaggio non supererà il 30%.

Le dinamiche della spaccatura fra società e politica non sono poi calligrafiche o neutre: una da una parte e l’altra per i fatti suoi. Gli esempi internazionali che dimostrano come questa spaccatura diventi attiva ed esprima rabbia e spesso violenza reattiva sono in costante aumento. Il caso più recente è quello del movimento della generazione Z in Iran, dove la protesta si incanala sul rifiuto delle regole coraniche dello Stato e i principi repressivi che li attuano. Certo, lì c’è una caratteristica specifica che riguarda la questione islamica, ma il modello sociale reattivo (dal basso) può essere attuato anche in Paesi non confessionali, anche da noi, e ha a che fare con il rifiuto di un potere della politica non condiviso e non responsabile. Dal basso contro forme di controllo e di non fare, la società si dà un’autorganizzazione, a cominciare dal piccolo, dai quartieri; e prima o poi confliggerà con la politica partitica che sarà conservatrice (al di là della destra o della sinistra) e corporativa. Quindi lontana e nemica. Da qui il passo verso la rabbia e il conflitto violento è breve.

Il tema ormai, per tutti e non solo per élite di varia natura, è quello di ‘fare’ sostituendosi a questi poteri non più democratico/partitici ma vuoti. I poteri sostitutivi, fra visioni e opacità, sono già al lavoro: e sono certamente favoriti dall’anomalia della destra al potere. ‘Poteri’ e ‘fare’ sono senza dubbio una novità molto più rilevante delle complicazioni del governo che Giorgia Meloni dovrà/potrà fare nel deserto dei tartari della politica rappresentativa.