Si ricordano di te, e sei una nazione da visitare solo se oltre al passato attrai la curiosità per il tuo immaginario contemporaneo. Ma noi siamo specialisti dell’autodistruzione
COMUNICAZIONE POLITICA – Prima Comunicazione, Novembre 2022
L’apparenza. Voi direte, con tutti i guai che abbiamo, proprio di questo dobbiamo occuparci? Allora mettiamola in questo modo: delle doti che il mondo ci attribuisce i meriti distintivi che ci vengono riconosciuti riguardano la qualità della vita e quel concorso di saperi e sapori che sappiamo mostrare e raccontare al globo. Da questo vorrei cominciare. In giro si ricordano di te e sei una nazione da visitare se, oltre alla conservazione del tuo passato, attrai la curiosità per il tuo immaginario contemporaneo; noi ci stiamo specializzando più sul mercato dell’autodistruzione e del crimine che su quello estetico. Avete presente ‘Emily in Paris’? Ecco, in salsa italica l’avremmo resa protagonista di tragedie criminali, gotiche, neo denunciatarie, rappresentata in balia delle mafie dominanti del momento.
Il nostro sentirci ombelico culturale del pianeta nasce dalla retorica del Grand Tour, un prodotto settecentesco frutto delle classi intellettuali e dirigenti, europee, di quel tempo. Cambiando le classi dominanti e la distribuzione della ricchezza, vedrete che cambieranno anche i luoghi della memoria; ogni popolo rivendicherà il proprio passato e il nostro fascino resisterà solo se rimarremo al centro dell’interesse e dei sogni altrui.
E qui la faccenda si complica. Se non si avranno strumenti per capire, non si leggerà; perché l’uomo vede solo ciò che sa interpretare, comprendere, tradurre. Per questo rendere le cose accessibili e fruibili diventerà una necessità irrimandabile. Nella mia Genova, per esempio, dopo la tragedia del ponte Morandi non è stato ancora abbattuto un gigantesco gasometro – inutilizzato da quasi 40 anni – che si staglia accanto al nuovo viadotto perché ritenuto “struttura industriale con più di 70 anni di età”. E così la Superba conserva oggi questo ingombrante reperto archeologico che esigerà costi di manutenzione e obbligherà le istituzioni a trovargli un senso. Riflettiamo: non si sa se abbiamo il 70% del patrimonio artistico universale ma viviamo nel dubbio che la definizione dell’Italia come ‘giacimento culturale’ contenga due significati antitetici: quello di sedimentazione di ricchezza opposto a quello di deposito del disfacimento e della liquefazione di un patrimonio in dissoluzione. In realtà, prima di ogni parola e propaganda, una città e un Paese s’intuiscono per come si mostrano. Il centro di una metropoli, i suoi palazzi, a maggior ragione quelli delle aree che ospitano le istituzioni, sono il modo di presentarsi di una nazione. Lo sono i dettagli della conservazione, l’arredo urbano, quel decoro termometro istantaneo di un popolo.
Così, come le persone quando sono travolte dal tempo che avanza, dalla difficoltà o dalla malattia, perdono spesso il senso dell’attenzione verso loro stesse, altrettanto una città che convive e accetta il proprio declino denuncia la sua mancanza di futuro. E lo ribadisce quando lascia ai turisti libertà comportamentali disdicevoli – da gita scolastica – che mai gli stessi si sognerebbero di adottare nel loro Paese.
Investire oggi in architettura, estetica della cittadinanza, non sarebbe dunque un gesto di vanità, ma di visione occupazionale, benessere e igiene civica. Prendiamo Roma, la capitale. Con pragmatismo e modernità ripensiamo la distribuzione degli spazi e dell’accoglienza museale. Non esiste nulla di eterno. Ma qual è il senso dello sparpagliamento delle occasioni? Credo sia solo pittoresca l’idea di muoversi nella giungla delle opportunità alla ricerca del piccolo, medio, grande, delizioso museo che non saprai come raggiungere – in ragione della complessa mobilità – per incontrare siti espositivi che, spesso, non hanno i mezzi per sostenere e attualizzare la loro proposta (ricordate le battaglie degli aeroporti locali, degli ospedali locali, del piccolo è bello, per avere tante piccole medietà anziché primari luoghi di eccellenza?). Così, se il Louvre ha dimostrato come un sito possa rappresentare il motivo di un intero viaggio, noi portiamo il nostro campanilismo guicciardiniano all’interesse particolare microscopico e intraducibile (alternando isteriche nenie della conservazione avulsa dal tempo, dal luogo e dall’origine del bene che si vuole tutelare). Quindi? Concentrazione e funzionalità (e ricordo le grida di scandalo con cui fu accolta una proposta in questa direzione di Carlo Calenda). E poi investimenti per comunicare, per formare (ma perché non si nomina, per esempio, Arrigo Cipriani capo di qualcosa e gli si fanno scrivere le tavole delle leggi di come si ospita, accoglie, accarezza il turista?).
Insomma, in trent’anni abbiamo perduto l’automobile, la chimica, la telefonia, distrutto la compagnia aerea, venduto la moda, le squadre di calcio. Forse qualche problemino lo abbiamo. Vogliamo imbrattare anche l’apparenza (che nel Paese dell’estetica sarebbe sostanza)?