Un tempo l’informazione era un mondo chiuso. A popolarlo poche aziende e poche persone. Oggi la tecnologia ha moltiplicato la produzione, la distribuzione e il consumo. Maggiore libertà non deve però significare assenza di regole
NELLA RETE DI VITTORIO – Prima Comunicazione, Dicembre 2022
Il primo ventennio di questo millennio è stato caratterizzato dallo sviluppo e dall’affermazione delle piattaforme digitali nel mondo della produzione, della distribuzione e del consumo di informazione e intrattenimento. La diffusione planetaria di questo nuovo terzo stato, questo spazio digitale che ha preso un valore significativo nelle vite di ciascuno di noi, ha cambiato per sempre i modelli di un’industria che si è scoperta improvvisamente normale, sottoposta a tutte quelle pressioni competitive da cui era convinta di essere esente. Perché, se andiamo a fondo, quello che le piattaforme digitali hanno fatto è cancellare le barriere di entrata e le rendite di posizione di tutti gli attori della sfera dell’informazione e dell’intrattenimento salvo, naturalmente, quelle che loro stesse alzavano.
Oggi gli abitanti del mondo consumano e producono più informazione e intrattenimento di quanto sia mai avvenuto nella storia. La distribuzione di questa gigantesca mole di contenuti è efficace, efficiente e poco costosa. Tutti, insomma, possono scrivere, recitare, cantare, suonare, disegnare un cartone animato o trasmettere in mondovisione immediata le proprie opinioni. In queste stesse piattaforme digitali, dove ciascuno di noi si indigna, si informa, si diverte, comunicano Stati, istituzioni, aziende, religioni, superando di fatto quel regime di scarsità che per anni aveva consegnato l’informazione e l’intrattenimento a gigantesche aziende, corporazioni e servizi pubblici.
Produrre e distribuire, infatti, costava miliardi. Rotative, torri, redazioni, palazzi, catene logistiche, studi ed effetti speciali richiedevano enormi risorse e la società, che ha sempre ritenuto l’informazione e l’intrattenimento fondamentali, riconosceva a chi faceva questi investimenti, fossero agenti privati o pubblici, lo status e il ruolo di intermediari (media) tra il potere, il mercato e il pubblico. Era un’industria di scarsità, con poche aziende e pochi Stati che si potevano permettere di spendere il necessario, con corporazioni che determinavano chi ne poteva essere lavoratore (giornalista); poche aziende e poche persone che definivano il discorso pubblico e il terreno in cui potere e mercato potevano raccontarsi alla comunità. Un ruolo che non veniva esercitato gratis: attraverso la pubblicità il mercato pagava gli interessi di questi investimenti; con sussidi, canoni e istituti di previdenza privilegiati la politica pagava il suo pizzo. La comunità, poi, con il consumo e le tasse metteva tutto a posto. Così questa industria tutta è progressivamente diventata pigra, sempre più abbandonata a un senso di inevitabilità, di rendita di posizione che le ha impedito di vedere come lo sviluppo delle piattaforme digitali ne smantellava progressivamente tutte le scarsità e introduceva, là dove loro non avevano mai pensato potesse arrivare, il germe della competizione e della disintermediazione.
Oggi i media non controllano più la formazione del discorso comune, vi partecipano attraverso una competizione con il potere, con il mercato e con miliardi di consumatori/attori che esistono in queste piattaforme digitali globali. Non vi sono più posizioni acquisite o rendite; si compete quotidianamente per l’attenzione del pubblico in un’arena digitale che però non è imparziale. Le regole, algoritmiche, che sottendono alla visibilità in queste arene sono infatti definite dallo stesso attore che, dopo aver ricevuto finanziamenti multimiliardari dalla finanza globale, si mantiene oggi attraverso un modello pubblicitario che lui stesso definisce e cambia ogniqualvolta vuole o percepisce il pericolo competitivo da parte di qualche attore. L’abbondanza creata dalla tecnologia ha infatti moltiplicato la produzione, la distribuzione e il consumo di informazione e intrattenimento, ma ha anche ricostruito le regole di visibilità e gerarchia di questa cornucopia, sostituendo al giornalista un meccanismo fintamente oggettivo/soggettivo (ti faccio vedere quello che penso ti piaccia perché ho registrato effettivamente cosa vedi tutti i giorni). Non imparziale, dicevo, perché le diete mediatiche in queste piattaforme sono costruite per generare reazioni che possano avvenire nella piattaforma stessa (like, retweet, eccetera) affinché la piattaforma possa misurare il successo o insuccesso di un contenuto e vendere a sponsor (mercato e potere) una rilevanza le cui forme e misure la piattaforma stessa ha costruito. Se il contenuto X produce Y like, allora è rilevante, allora posso vendere all’inserzionista la rilevanza misurata.
Se noi consumatori/attori, potere e mercato abbiamo abbracciato con passione questa trasformazione per liberarci dal giogo della scarsità, per i media il trionfo delle piattaforme è stato un disastro che ancora non ha finito di minarne la sopravvivenza. Esautorati dalla rendita delle loro posizioni, hanno perso dapprima i soldi del potere e poi quelli del mercato, fino a perdere il rapporto con i consumatori e con gli attori. Oggi, infatti, i giovani talenti delle nostre società non sognano più di diventare giornalisti, ma influencer, tiktoker, animali nuovi e indipendenti che non vogliono produrre ancora per i media a cui non riconoscono più la capacità di assicurare soldi, prestigio o potere. Un’industria improvvisamente normale deve competere per la rilevanza ogni giorno, senza scorciatoie, in un teatro le cui regole sono disegnate da altri che, per questo investimento iniziale, si portano via la gran parte dei soldi che potere (attraverso la finanza) e mercato (pubblicità) dedicano alla fondamentale attività di informare e intrattenere il pubblico.
Gli effetti del monopolio digitale di distribuzione non hanno però avuto conseguenze solo sui media come settore industriale, ma anche sulla popolazione in generale e sui comportamenti di consumo e di costruzione del linguaggio collettivo. Anche qui il tema centrale è quello dell’abbondanza; liberi di consumare informazione e intrattenimento senza barriere, le diete che noi individui scegliamo sono idiosincratiche e spesso autodidatte. Consumiamo informazione e intrattenimento che ci piace, ci diverte, ci indigna e, a volte, ci educa e informa. Senza prevedibilità e senza uniformità, sono saltati i meccanismi di costruzione del dibattito pubblico. La formazione di un linguaggio condiviso, di una selezione di informazioni che tutti abbiamo a disposizione, è diventata impossibile proprio nel momento in cui produrre e distribuire è diventato più facile. Non è un consumo anarchico, perché gli algoritmi e i meccanismi di visibilità impongono ordine, ma è un ordine finalizzato a generare reazioni che si possano compiere nella piattaforma stessa e che possano essere misurate.
La partecipazione, come consumatore o attore, alla piattaforma generale finisce per contribuire a un movimento globale che si allontana da forme di informazione, intrattenimento o ragionamento che favoriscono l’introspezione verso un catalogo di consumo che vuole generare reazione, socialità (da cui social network). Di per sé non un movimento innaturale, ma pericoloso se totalitario.
In questa chiave va visto il possibile intervento regolatorio, nell’evitare la deriva totalitaria di una tecnologia, e prima ancora di un’azienda, nel definire il discorso comune di una generazione su scala globale. Era tanto pericoloso permettere la concentrazione della proprietà dei media tradizionali nell’epoca della scarsità, quanto lo è oggi permettere a un’oligarchia di più piattaforme digitali di dettare i meccanismi di visibilità dell’informazione e dell’intrattenimento. Piattaforme che, spesso, rispondono a singoli individui o a istituzioni finanziarie portatrici di una loro visione parziale.
Il regolatore deve dapprima capire come funzionano queste piattaforme, dotandosi di talento e di conoscenza che sia quantomeno pari a quello a disposizione delle aziende che vuole regolare. Poi deve misurarsi con un progetto difficilissimo: salvaguardare l’abbondanza e l’efficacia che il digitale ha portato alla produzione e alla diffusione, frantumando però qualsiasi rendita di posizione che possa scaturire dal controllo delle piattaforme, fino a rendere impossibile il controllo stesso, se non alla comunità intera.