A ogni scandalo i riflettori si accendono sul mestiere del lobbista. E i politici preferiscono l’assenza di norme: troppo vincolanti. Ma più per loro che per i lobbisti
LOBBY D’AUTORE – Prima Comunicazione, Febbraio 2023
E’ l’antica maledizione del ‘lobbista professionista’ in Italia. Vive e opera quotidianamente in modo trasparente, incontrando i decisori pubblici alla luce del sole e senza sotterfugi, per suggerire, spiegare, convincere. In alcuni casi riesce a migliorare oggettivamente la qualità della legislazione, in molti casi riesce a evitare regolamentazioni che ignorino la realtà dell’economia. Ma non fa notizia. E tuttavia ogni volta che scoppia uno scandalo sull’asse del rapporto pubblico-privato, le luci dei riflettori si accendono all’improvviso sul suo mestiere e scatta implacabile la demonizzazione dell’intera categoria. Come se i suoi protagonisti amassero le tenebre o la penombra, a fronte di decisori pubblici impegnati a portare la luce dove c’è il buio.
È successo, ancora una volta, con il Qatargate. In questo caso chiunque legga i resoconti delle indagini può giungere facilmente a una conclusione: l’associazione tra Qatargate, lobbying e lobbisti, su cui si sono esercitati per settimane i media italiani ed europei, è un’arma di ‘distrazione di massa’. Senza alcun fondamento nelle carte dello scandalo che ha investito la credibilità delle istituzioni europee, perché questo scandalo riguarda solo parlamentari, ex parlamentari, assistenti di parlamentari. Ma utile – consapevolmente o inconsapevolmente – a nascondere la testa sotto la sabbia rispetto a una serie di questioni particolarmente gravi e complesse.
La prima è il fantasma che rischia di occupare la scena della globalizzazione nei prossimi anni: il rapporto tra le democrazie e le autocrazie, o comunque i regimi non democratici. Dotate di regole, garanzie e organi di controllo contro i comportamenti illegali le prime, prive o estremamente carenti di questo apparato di civiltà le seconde. E pronte ad “andare all’attacco” delle democrazie occidentali con ogni mezzo disponibile. Scommettiamo che il Qatargate sarà solo il primo di una serie di scandali di questa natura?
La seconda questione riguarda proprio la regolazione delle attività di lobbying. Oggi la gran parte dei professionisti del settore – impegnati nelle relazioni istituzionali di grandi e medie aziende o nelle società di lobbying – chiede a gran voce norme che regolino il comparto, rendendolo il più possibile trasparente. Ma se dei circa 100 progetti in materia depositati in Parlamento nei decenni della Repubblica nessuno è diventato legge, è responsabilità prima della politica: leader di partito, parlamentari ed esponenti di governo preferiscono l’assenza di norme. Perché eventuali regole in materia vincolerebbero loro, più che i lobbisti. Il vero salto di qualità nascerebbe ad esempio dall’introduzione di una normativa rigorosa sul fenomeno del ‘revolving doors’, già operativa negli Stati Uniti, impedendo a chi ha svolto ruoli istituzionali e ricoperto incarichi decisionali nel pubblico di passare immediatamente dall’altra parte della barricata. Perché è assolutamente necessario un adeguato periodo di ‘raffreddamento’, dai tre ai cinque anni, per evitare situazioni di profonda inopportunità come quelle cui ci hanno abituato in Italia una serie di leader o ex leader politici impegnati in attività di business di vario tipo.
La terza questione investe la credibilità delle istituzioni europee. Le abbiamo considerate per anni un modello, in virtù dell’esistenza di un ‘Registro per la trasparenza’ (non vincolante) e di una serie di prescrizioni che regolano i rapporti tra decisori e rappresentanti d’interessi all’interno dei Palazzi di Bruxelles. Non è bastato. Le nuove misure in 14 punti annunciate dal presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, con l’obiettivo di “aumentare la trasparenza e l’etica, e migliorare i rapporti di lavoro con i Paesi terzi”, si muovono nella direzione giusta come il divieto per gli ex europarlamentari, per la durata di due anni dalla fine dell’incarico, di svolgere attività ‘in conflitto d’interessi’ con quella svolta in precedenza nelle istituzioni comunitarie, e l’obbligo per i parlamentari in carica di dichiarare regali, viaggi e incontri in un registro ad hoc perché queste informazioni possano essere pubblicate sul sito del Parlamento europeo. Queste misure hanno però un grande limite: continuano a basarsi, come l’antico Registro per la trasparenza, sul principio di autoregolamentazione dei parlamentari. Non sono previste sanzioni, né sono istituiti veri organismi di vigilanza. Un vulnus che rischia di trasformarle in un pannicello caldo. Poco male: in caso di difficoltà, c’è sempre l’arma di distrazione di massa da mettere in campo.