Neo eletto al Congresso Usa per i repubblicani, ha mentito su tutto: nome, istruzione, religione, sesso e lavoro. Senza che nessuno se ne accorgesse. Ecco perché
NELLA RETE DI VITTORIO – Prima Comunicazione, Febbraio 2023
George Santos ha vinto le elezioni per rappresentare il terzo distretto congressuale di New York, Long Island. Nella stessa notte, i repubblicani hanno vinto tutti e quattro i seggi della Capalbio di Manhattan, ma Santos è speciale. Santos non esiste. È un troll da social network che si è incarnato in un essere umano in carne d’ossa. C’è voluto il New York Times (seppure solo dopo la vittoria del collegio elettorale) per rivelare che Santos aveva mentito sul suo nome, sulla sua istruzione, affiliazione religiosa, orientamento sessuale, esperienza lavorativa, attività filantropiche e finanziarie. Bugie che Santos ha ammesso, ma che non lo hanno comunque dissuaso dal giurare (facendo con le mani il segno di riconoscimento dei suprematisti bianchi) come deputato ed entrare a far parte della maggioranza repubblicana; uno dei nove voti decisivi.
Difficile capire chi sia veramente l’essere umano che interpreta George Santos; dice di aver lavorato per Citigroup e Goldman Sachs, cosa che non ha fatto. Ha detto che si è laureato al Baruch College: non ha fatto neanche quello. Ha affermato di essere stato un campione di pallavolo universitario, di essere ‘ebraico’ in rispetto alla principale comunità etnica del suo distretto, finanche di discendere da rifugiati ucraini. Ha negato per alcune settimane l’affiliazione con un gruppo immobiliare implicato in uno schema a piramide, salvo poi dover ammettere di esserne parzialmente proprietario, così come ha negato di essere la persona raffigurata in numerose foto in abbigliamento femminile a un evento in Brasile. Per poi ammettere, appunto, che in quelle foto si riconosceva: “un ragazzo andato a divertirsi”.
Le bugie di Santos sembrano meno un affronto alla dignità del processo democratico e più una sorta di satira duratura, un’opera d’arte performativa, la personificazione di quegli account social della disinformazione che ormai popolano stabilmente le nostre reti sociali. Santos non è ‘Zelig’, infatti, non è la storia di un individuo che prova a ingannare il sistema trasformandosi, ma una costruzione fatta apposta per rispondere a temi, sensazioni, appartenenze e culture del distretto che doveva vincere. I nomi giusti, l’ascesa sociale da inizi difficili, l’ebraismo, le banche d’affari, la legge, l’ordine, il personaggio che avrebbe saziato le ansie e confortato le vanità dei ricchi elettori del suo distretto. Sosteneva di essere figlio di immigrati brasiliani, cresciuto in ‘estrema povertà’ e di aver frequentato le scuole pubbliche prima di diventare un banchiere e un ricco filantropo. È un sogno in cui senza dubbio molti vogliono ancora credere. Avrebbe dovuto essere una bandiera rossa. Chiunque guardi all’America consapevolmente sa che i trader di Goldman Sachs non provengono, come dice Santos, dagli appartamenti seminterrati di Jackson Heights, nel Queens. Provengono da Dalton, Choate ed Exeter (scuole private d’élite della East Coast americana).
Il genio di chi ha costruito il personaggio Santos è anche di aver usato per legittimare la propria narrativa tutti i temi e gli eventi che maggiormente toccano la sensibilità del Paese. Il candidato Santos ha dichiarato di aver perso la madre nell’attentato dell’11 settembre, i nonni nell’Olocausto, amici durante il massacro anti gay nel club Pulse di Orlando. Ha corso da omosessuale, immigrato, finanziere repubblicano, incarnando e allo stesso tempo esorcizzando gran parte dei totem spauracchi della destra suprematista, normalizzandoli nel solco del tradizionale sogno americano della redenzione personale, del successo economico e sociale dell’individuo indipendentemente dalla società che lo circonda. Ha potuto farlo per la debolezza dei media e degli altri organi di controllo, lenti e ormai marginalizzati dagli strumenti di narrativa di massa; soprattutto, ha potuto farlo perché il discorso collettivo è ormai ipersensibilizzato alle appartenenze emotive e desensibilizzato all’analisi razionale. Troppe cose non tornano e non tornavano, se solo si fosse guardato da vicino quello che il candidato raccontava ma, come insegnano i profili civetta di Twitter o TikTok, e come saggiamente osservava Manzoni, più del vero può il verosimile.
Il candidato Santos, che sia un costrutto frutto di chi lo interpreta o di chi lo ha usato per guadagnare un seggio, è la migliore delle metafore della politica e dell’informazione in questo inizio di secolo. La narrativa supera la verità perché è verosimile, ha una carica emozionale che manipola le psicologie e si affida alla ignavia dei meccanismi di controllo che, come in questo caso, arrivano a trovare la verità quando è troppo tardi, quando il candidato ha già giurato ed è già necessario al sistema per funzionare.