Quella raccontata in ‘Nata con noi’ (Giunti) è la storia dell’infanzia di una bambina di nome Barbara nata e cresciuta con due mamme. Raccontandola, le due donne, entrambe giornaliste, hanno voluto dare un contributo – come spiega Romanelli in questo intervento – all’inesauribile tema dei diritti. Ma il libro è anche il racconto di una bella, sincera e affascinante storia d’amore
che ha spinto Eugenia e Rory “a sfidare i limiti per farli diventare orizzonti”
“Premetto: ‘Nata con noi’ è un libro gentile e a me e mia moglie, che ne siamo le autrici, piacerebbe che viaggiasse nella gentilezza, nonostante si affronti un tema divisivo. Sappiamo quanto sia importante combattere per i diritti dei bambini e delle bambine, contrastare il privilegio dei pochi, difendere la libertà di amare, legiferare sulle famiglie arcobaleno, scendere in piazza e alzarsi in piedi come Rosa Parks. Ma questo libro ha a che fare invece con l’immaginario, aspira a creare narrazione sulle famiglie omogenitoriali, quasi assente, a rappresentarle, a coinvolgere lettori e lettrici in una storia che non riguarda una nicchia dell’umanità ma è universale, come universali sono i desideri, le speranze, le paure, le incertezze, le aspirazioni, la sofferenza, l’esaltazione, la rabbia, la sorpresa che vengono raccontati tra le pagine, nei dieci anni dell’infanzia di Barbara, nata e cresciuta con due mamme.

“Voglio che questo libro sia uno dei mattoni che pavimenta la strada dei diritti, per chi verrà dopo di noi”, dice mia moglie Rory. Io vorrei anche suscitare commozione, indignazione, allegria, e, nel mentre, aiutare ad acquisire tante informazioni che oggi mancano. Una mancanza che fa da incubatrice perfetta, insieme dicevo alla mancanza di immaginario, rappresentazioni e narrazione, al radicamento del pre-giudizio, ossia del pensiero basato sulle credenze e non sulle esperienze: dunque fasullo.
Quando mi innamorai di Rory, ero fidanzata con Marco: stavamo andando a vivere insieme, lui avrebbe acquistato la casa che avevamo scelto. Dissi a Rory che no, non lo avrei lasciato perché ero già grande, e volevo dei figli.
La mattina dopo, mi portò delle scarpette da neonato di lana azzurra, che poi indossò nostra figlia. Ricordo il mio sgomento di fronte a quella proposta, di farlo insieme un figlio. Quasi non capii, mi sembrava un comportamento scomposto, irrazionale, grottesco. Giudicai prima di conoscere. Respinsi l’idea senza neanche percorrerla. Non potevo
pensarla, in effetti, perché non sapevo nulla delle possibilità che invece c’erano. Non circolavano film, libri, inchieste, trasmissioni. Non c’erano esempi, modelli.
Poi l’amore fece da lepre, tirò dove voleva andare, e cominciammo ad esplorare, sia tra noi, sia nella realtà, le strade percorribili. Tutto questo per dire che mi è facile empatizzare con chi resta interdetto, sgomento, dubbioso, con chi giudica, perché sono stata io la prima. Il tema è macroscopico, in effetti, perché è la prima volta da quando esiste sulla terra la nostra specie che abbiamo a che fare con la manipolazione della vita: possiamo crearla in laboratorio. E’ una questione capitale dal punto di vista bioetico, e l’omosessualità è solo una scusa, visto che il 98% delle coppie che ricorrono alla procreazione medicalmente assistita o alla gestazione per altri è eterosessuale. Una questione che merita di essere affrontata in tutta la sua complessità con la partecipazione di tutti gli attori sociali, se la si libera dalle suddette ipocrisie: non può che diventare il dibattito della contemporaneità.
Come pure la messa in discussione degli architravi padre-madre. Se gli studi internazionali con la peer review ci dicono oggi all’unanimità che ogni bambino ha bisogno di funzione materna e paterna indipendentemente dal sesso biologico dei genitori e dal loro orientamento sessuale, io farei un passaggio ulteriore, chiamandole funzioni normative e di cura. Perché dobbiamo ricordarci cosa ci insegna il Murgianesimo, e cioè che siamo dentro al sistema culturale del
patriarcato: se da sempre la res publica è amministrata dai maschi e a fare le leggi pensano loro, è ovvio che la funzione normativa sia associata al padre, mentre alle madri, dallo stesso “sempre” chiuse in casa con i figli, sia attribuita la competenza della cura.
Tante parole per nulla però, visto che, anche se forse questi sono i pensieri sottesi al racconto, in ‘Nata con noi’ non si parla di tutto ciò: bensì di un incontro, quello tra Rory e me, tardivo e inaspettato, innescato da un algoritmo e esploso nell’amore in modo così determinante da spingerci a sfidare i limiti per farli diventare orizzonti, nella speranza di trovare un secondo mondo, oltre le Colonne d’Ercole.
Il mondo c’era, ed è l’universo inesplorato che navighiamo a vista da un decennio, allevando questa bambina fiorita dal seme di un donatore anonimo in un paese senza leggi, a cui siamo riuscite lo stesso a garantire i diritti grazie a un pionieristico percorso giudiziario (la seconda stepchild adoption italiana con la prima Consulenza Tecnica d’Ufficio mai richiesta a una famiglia omogenitoriale). Barbara, che da sempre conosce la sua storia, è oggi una giovane lupetta scout, ha il pollice verde, adora dipingere e sogna di fare la cuoca: per lei, sottratta alla coazione del Complesso di Edipo, la sua storia semplicemente è. Lei, che per alcuni non sarebbe nemmeno dovuta nascere”. (Eugenia Romanelli)
Eugenia Romanelli e Rory Cappelli (Foto Guido Fuà)