Draghi e i danni del pensiero unico

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Tomaso Montanari sostiene (lo ha fatto in un recente libro) che l’oligarchia conservatrice e le centrali di potere ci stanno portando in guerra. Il ruolo dell’ex capo del governo

CONVERGENZA – Prima Comunicazione,Maggio-Giugno 2023

La riflessione di questo mese parte dalla rilettura del libro pamphlet (pubblicato lo scorso anno) ‘Eclissi di Costituzione. Il governo Draghi e la democrazia’, di Tomaso Montanari (Chiarelettere), contro il ‘pensiero unico’: basta guardare la copertina per capire che pensiero unico equivale a Mario Draghi. Montanari è uno storico dell’arte, radicalmente in polemica con alcuni colleghi, per esempio Sgarbi; ed è rettore dell’università per stranieri di Siena. Si occupa di cose d’arte e beni culturali. Se ha fatto uscire un libro come questo, in cui si occupa di ideologia e politica, vuol dire che sentiva un’urgenza (e lui stesso lo conferma): quella di ‘parlare’ in un momento storico tanto drammatico, rompendo silenzi e ipocrisie. Una delle più evidenti riguarda appunto Draghi, la sua reputazione, il suo mito. E in sintesi: Draghi è “l’esponente di un’oligarchia conservatrice, un venduto alla finanza, quello che indirettamente, attraverso i suoi padroni americani, ci sta portando alla guerra”.

Montanari dice anche altro, ma la sostanza è questa: ed è la risposta alla necessità di smascherare il mito Draghi correlando la sua figura a un ruolo, quello di rappresentare un pensiero ‘unico’ figlio delle centrali di potere, soprattutto Usa, che condizionano il Paese portandolo in una situazione di sospensione democratica, con una funzionalità diretta agli interessi americani, che diventano con la Nato in Europa una struttura ‘pericolosa’ che affronta il pericolo di una guerra con Russia e Cina. L’urgenza deriva dal fatto che molta della cosiddetta sinistra, finora sparsa e sonnolenta, vede con chiarezza ora il disegno che ha portato a questa situazione. Elezioni anticipate volute da Draghi, rappresentatività democratica assente (meno del 45% ha votato, con pochissimi  giovani alle urne), e la destra, ben dentro la sua storia identitaria fascista, al governo.

 Con un po’ di passaggi, ora il quadro vischioso e sonnolento prende forma, e la destra dopo un disorientamento iniziale, comincia a fare la destra, nel modo più semplice: rivendicando la sua storia, contrastando l’identità antifascista del Paese e assumendo posizioni di potere esplicito nelle funzioni pubbliche. E questo passaggio provoca reazioni e forme di azione disordinate, ma aggressive. C’è stato un 25 aprile a forte partecipazione, a cominciare da quelli che non sono andati a votare, tutto segnato dal valore della Resistenza (Ora e sempre Resistenza come dice anche il presidente Mattarella, ben lontano dall’inclusione e dalla pacificazione con la destra fascista). Ci sono continue manifestazioni di opposizione e di antagonismo da parte dei giovani (l’ultima riguarda gli attendamenti nelle piazze come protesta verso il caro affitti e di fatto il contrasto al diritto allo studio). Il dibattito sulle contraddizioni al sostegno all’Ucraina è sempre più acceso e si moltiplicano testimonianze e giudizi critici autorevoli. Da registrare all’inizio di maggio la censura di Ricardo Franco Levi, presidente dell’Associazione italiana editori, (poi rientrata) a Carlo Rovelli, uno dei più grandi fisici del mondo, a parlare a nome dell’Italia alla fiera del libro di Francoforte. Perché? Perché Rovelli esprime pubblicamente dubbi sulla politica italiana nel conflitto Russia-Ucraina. E questo è solo l’inizio di una fase di occupazione del potere ben espresso dal governo di destra. L’accelerazione del quadro di antagonismo sociale è evidente e probabilmente irreversibile.

Non è difficile immaginare la radicalizzazione cui ci porterà l’antagonismo ormai esplicito: i blocchi sociali, dai giovani ai precari (siamo il Paese in Europa con il più alto livello di precariato) hanno cominciato a muoversi dal 25 aprile. La grande stampa, un po’ distratta e un po’ opportunista, non se ne accorge, continuando a ricamare sulla Meloni e il melonismo.

Siamo comunque nella società della comunicazione e anche i conflitti sociali e le strutture di potere che li alimentano sono forme comunicative. L’attacco di Montanari a Draghi è anzitutto un attacco alla forma comunicativa mitologica che ne ha accompagnato il successo. Come tutti i grandi miti, quello di Draghi si è costruito nell’implicito, di quello che si dice ben oltre quello che si conosce. E ora molte cose cominciano a sapersi e a vedersi. Senza andare troppo in là sulla questione del pensiero unico antidemocratico di cui parla Montanari, vediamo le cose come stanno. Si parte dal finto gioco narcisistico del sentirsi offeso da una maggioranza complessa che lo rifiuterebbe, si costruiscono elezioni anticipate sull’ovvio mandato di qualcuno, lo stesso qualcuno che legittima un governo di destra, fuori dai numeri di una democrazia rappresentativa. E poi si toglie l’Italia dal ruolo naturale di mediazione che la sua posizione storica e geopolitica la porterebbero ad avere, spostandola in un ruolo di comprimario debole della Nato. Insomma la potenza del mito vacillante c’è ancora, eccome: ci porta vicino alla guerra.