Perché non bisogna avere paura del futuro

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L’uomo vive proiettando le sue paure passate nel futuro, dimenticando che quest’ultimo ha più fantasia della nostra memoria e propone novità e intuizioni impensate di renderla disponibile e meno costosa o retrocedere in alcuni progressi di benessere per limitarne il consumo

COMUNICAZIONE POLITICA – Prima Comunicazione, Luglio-Agosto 2023

Il nostro è un mondo che a leggerlo distratti sembra impegnato in uno slalom, fitto fitto, di apocalissi, tragedie e varie irrimandabili sciagure.
Forse è così. Ma senza apparire dei fanatici del progresso è davvero faticoso sposare questa tesi che annovera – nei secoli dei secoli – firme celeberrime, studiosi insigni e filosofi di ogni rango.

Un meraviglioso libro di Alberto Mingardi (Capitalismo, il Mulino) ricorda un argomento capace di disarcionare i più testardi sostenitori di questo cammino a gambero dell’umanità: “L’operaio moderno dispone senza dubbio di alcune cose che lo stesso Luigi XIV sarebbe stato ben felice di possedere, ma non poteva possederle – per esempio i servizi dell’odontoiatria moderna” spiega Joseph Schumpeter (1883-1950). Sintesi brutale: in una giornata angosciata da un ascesso Roi Soleil avrebbe scambiato Versailles per un antibiotico che la società moderna offre in ogni farmacia di quartiere.

Quindi senza eccedere nell’esaltazione delle “magnifiche sorti e progressive”, il cruscotto dei fondamentali planetari sembrerebbe essersi munito di risorse e strumenti per disinnescare le inquietudini del futuro. E in effetti il progresso di questo nuovo millennio ha cominciato a combattere con efficacia i numeri atroci della fame nel mondo; ha sconfitto le epidemie del passato e ne ha domato di nuove; ci ha regalato una crescita tecnologica con ricadute diffuse e distribuzione del sapere inimmaginabili.

Eppure la percezione è un’altra. Spesso nella letteratura è stata utilizzata la metafora apocalittica per descrivere un presente oscuro e un domani terribile, entrambi accomunati dalla certezza di una catastrofe imminente (Mark O’Connell, ‘Notes from an Apocalypse: A Personal Journey to the End of the World and Back’, 2020). Tra gli indicatori della portata nefasta dell’impatto umano sulla terra – che contaminano la sopracitata plancia dell’ottimismo – sono contemplati la perdita della biodiversità, l’emergenza climatica, il degrado degli ecosistemi, la minaccia nucleare e, sul piano prettamente sociale, l’aumento delle ingiustizie e delle disuguaglianze. Si tratta delle denunce emotivamente più coinvolgenti perché rimandano a un mainstream del peccato originale che sembra tramandarsi nella memoria collettiva come ancestrale. In fin dei conti ogni società contemporanea paga l’eco incarnito di una responsabilità atavica nella distruzione del mondo. Prima – quando? Nell’Eden? – sarebbe esistito uno stato di armonia che poi, per intervento umano, è involuto in sciagura pronta a deflagrare in catastrofe.

Ma proviamo a cambiare lente.

Quali sono i mali insuperabili che ci si parano davanti? Le catastrofi ambientali indotte dall’uomo o la sua capacità distruttiva militare?

In effetti la potenzialità devastatrice umana sta aumentando con una velocità incontenibile. Così come le sue conoscenze. Sono cresciuto guardando ‘Spazio 1999’, in cui la Luna sarebbe dovuta uscire dall’orbita della terra il 13 settembre a causa di un’esplosione prodotta dagli uomini (nel mio 33esimo compleanno); ‘Blade Runner’ che anticipava la Los Angeles del 2019 e 2001: ‘Odissea nello spazio’ (il nostro immaginifico mondo che sarebbe dovuto arrivare 22 anni fa). Per ora di quel futuro si è visto poco, ma nel frattempo sono scomparsi i taxi.

Volendo essere un po’ grossolani e assai relativisti, questi ultimi secoli sono stati davvero tristi per l’ego dell’umanità: da poche centinaia d’anni abbiamo accettato di non pensarci più al centro del nostro sistema planetario (che infatti si chiama ‘solare’); poi abbiamo scoperto di non essere, con il nostro sistema solare, nemmeno al centro della nostra galassia insieme ad altri miliardi di sistemi e corpi celesti; poi che la nostra galassia, confusa tra miliardi di altre, non è nemmeno al centro di quello che ci sembra essere la forma del nostro universo. Nella vita della nostra Terra, circa 4,5 miliardi di anni, se riportassimo il tempo della sua esistenza a una giornata di 24 ore il genere Homo si affaccerebbe verso le 23,59 e 12 secondi. Il Sapiens a quattro secondi dalla fine e a quattro millesimi di secondo la rivoluzione industriale (vita della Terra che sembrerebbe rappresentare solo un terzo di quella dell’universo che ci ospita).

Sulla mia scrivania conservo tre fossili: uno datato 500-550 milioni di anni fa; un altro di 200-250; il terzo di 25-30. Intanto mi fa sorridere quella variazione, in milioni, paragonabile solo all’oscillazione del debito pubblico. Poi il fatto che la vita sia scomparsa e ricomparsa per cause naturalissime – meteoriti, eruzioni, eccetera – ricorda come quegli esseri viventi, pur fortissimi e giganteschi, non avessero strumenti per prevedere, prevenire o gestire il guaio che stava per annichilirli. Nel frattempo, nella sua galoppata esistenziale la Terra ha cambiato per qualche centinaio di volte la sua polarità – tra Nord e Sud – e pare che né il wi-fi, il 5G o l’elettrificazione siano stati in qualche modo responsabili di queste mutazioni.

Eppure da diverse decine d’anni – un microsecondo di quella giornata della vita terrestre – misuriamo con tonnellate di dati la fotografia di uno sfascio planetario. Yuval Harari ha costruito il suo libro più famoso mostrandoci come la nostra umanità, insieme a tanto evidente benessere, abbia prodotto anche tanta tristezza (ma anche in questo caso sorge il sospetto che ci si ritrovi di fronte un tema di misurabilità; dell’entusiasmante vita nel Medioevo sfuggono dati certi).

Gli esseri viventi, vivendo, si sa, producono prodotti di scarto. Noi per esempio li smaltiamo, incuranti del nostro lignaggio, ceto e ricchezza, più o meno allo stesso modo: nel bagno. A fine Ottocento New York era assillata da un problema capace di togliere il respiro alla città: la cacca dei cavalli che garantivano la mobilità dei trasporti della metropoli che cominciava a non dormire mai. Un consesso di scienziati e urbanisti chiamati da tutto il mondo gettò la spugna sostenendo che non esistevano soluzioni. Arrivò l’auto a motore. Ne risolse uno e ne diede vita a un altro.

Purtroppo l’uomo vive proiettando le sue paure passate nel futuro, dimenticando che quest’ultimo ha più fantasia della nostra memoria e propone novità e intuizioni a cui la mente non aveva mai pensato.

D’altra parte l’Età della pietra non terminò per esaurimento della stessa.

Buon futuro. Sostenibile.