Racconti paralleli animati da storie di donne. Donne impegnate, alcune nel loro lavoro, altre in politica; c’è poi che vive di passioni, altre hanno un segno che le caratterizza: il coraggio. Fabio Luppino racconta ai lettori di Primaonline il suo libro (Santelli editore). E ci regala un brano tratto da uno dei racconti: quello di Caterina
“Il mio ‘Quei giorni torneranno’, Santelli editore, in libreria già da qualche giorno, è un libro di tanti racconti paralleli al cui centro ci sono le donne: impegnate nel loro lavoro, impegnate in politica, passionali, coraggiose, capaci di andare fino in fondo e rischiare anche di perdere e perdersi. Questa narrazione si incrocia con il racconto di un giornale, il mio giornale di una vita, di cui non faccio mai il nome perché non voglio fare storia ma soltanto consegnare un vissuto, anche se ci sono alcune verità.
Il libro è rivolto ai giovani che in ogni loro attività, dal lavoro agli studi, lo fanno con idee e passioni e che noi dobbiamo sostenere, sempre. E alle donne, che sono la parte migliore del nostro Paese.
La foto di copertina scelta, che sembra in contraddizione con il titolo ma non lo è, è uno scatto straordinario di Alberto Pais, durante una manifestazione del sindacato a Roma del 1993. Una foto straordinaria che non ebbe, a suo tempo, la dignità di una prima pagina. I due ragazzi che si difendono da una simbolica violenza, esemplificano la volontà di esserci, di manifestare, anche dissenso, un impegno vero che nelle giovani generazioni esiste sempre, oltre le stupide semplificazioni. Il brano che riporto è tratto dal racconto di Caterina. Prima di lei ci sono le storie di Giovanna, Ginevra, Giulia e Alice. E Francesca.

“Devo restituire quello che ho avuto, devo fare in modo che quest’avventura sia uguale alla mia per tutti, milioni di ragazzi che la intraprenderanno dopo di me e gli altri dopo di loro. Non dovrebbe essere compito mio, ma dello Stato, ma io farò tutto quello che potrò per una scuola migliore”, si disse un giorno Caterina. E da lì non si mosse più. Così, nella scuola ci entrò per insegnare e si accorse molto presto che non erano in molti a condividere questa sua idea di avventura entusiasmante per sé e per i ragazzi. Ma, al di là, della delusione, non ebbe alcun cedimento. Quel che più la infastidiva e la infastidisce è il modo in cui viene rappresentato il complesso mondo dell’istruzione. L’alterigia, ecco, quella proprio no. Eppure, lo svogliato e stanco, episodico e rapsodico racconto veicolato dai mezzi d’informazione è l’ulteriore modo del fallimento di come è stata impostata negli ultimi vent’anni.
La scuola diventa periodicamente luogo simbolico di contesa tra bande e i primi a suonare la carica su quel che si deve o si dovrebbe sono, regolarmente, coloro che la conoscono meno. Una narrazione maggioritaria e la politica abbondantemente distratta e arruffona nel governo dell’istruzione hanno costruito una connotazione altamente negativa di chi se ne occupa. Il ruolo di chi insegna è negletto, offeso regolarmente. Fino a trenta-quaranta anni fa il docente era rispettato a prescindere, in alcune circostanze, soprattutto all’università, anche troppo e con ridondanza fuori luogo. In decenni in cui la scuola ha iniziato a crescere e a essere un luogo sempre più complesso, più attento a diversità e disfunzionalità, con attitudini un tempo impensabili, il racconto è stato indirettamente proporzionale a questa evoluzione. Anzi, prevalente la raffigurazione di una classe docente inadeguata al compito, antica e priva della dovuta formazione per dare davvero qualcosa. Confinata nel luogo comune e nel sottile disprezzo, fuori dalle regole di efficienza e produttività, come se la costruzione di cittadini consapevoli potesse essere sottoposta a misurazione. Offesi come fossero privilegiati, diciotto ore settimanali che vuoi che siano. Una goccia continua, martellante, offerta all’opinione pubblica come verità, per cui da trent’anni gli insegnanti, se vogliono fare davvero fino in fondo il loro mestiere, devono spesso dotarsi di un avvocato. Perché, più di ogni altra figura di lavoratore pubblico, sono sottoposti all’arbitrio degli incompetenti, a genitori aggressivi e ignoranti, alla violenza verbale di chi vuole avere ragione a prescindere minacciando denunce private e personali. Anche solo l’invito a studiare di più viene messo sotto la lente per contrapporlo ad attenuanti generiche di cui la scuola, in ogni caso, deve tenere conto. L’annichilimento del ruolo pubblico dei docenti ha poi indirettamente giustificato in Italia il confinamento della professione su livelli stipendiali ridicoli, accentuandone la femminilizzazione, come se si dicesse implicitamente, se proprio vuoi lavorare, donna, fai l’insegnante.
Un non-detto da anni Cinquanta, in un contesto che esige modernità e competenza, in cui, con frequenza regolare, torna il dibattito su quanto sarebbe bella una scuola che promuovesse il merito, argomentazione aperta e poi chiusa dagli stessi che parlano di scuola comodamente seduti sul loro divano, senza conoscerla. Senza conoscere, soprattutto, i contesti. Ci sono quartieri in Italia in cui la scuola è l’unica speranza di salvezza, solo perché esiste. In altri, i docenti, quando non si arrendono o non vengono minacciati, sostituiscono diverse figure agli occhi dei ragazzi, dal genitore all’assistente sociale. In generale, la scuola diventa il terminale del disagio che attraversa in modo trasversale i giovani. L’ansia che divora e paralizza, che ripiega l’esistenza a un presente senza futuro a sedici anni e provoca abbandoni e rifiuti. Tutto questo entra in una scuola.
Quando la scuola esiste, è ben strutturata, offre in potenza occasioni di crescita e riscatto. Sì, perché poi ci sono migliaia di strutture scolastiche inadeguate, pericolanti, fredde, senza nemmeno i più elementari servizi, in cui lo sforzo e il sostegno dei privati non può esserci con famiglie al di sotto della soglia di povertà, che alla scuola chiedono e non possono dare. E poi ci sono spazi piccoli e classi numerose, classi numerose con diversi ragazzi problematici, e i bisognosi di sostegno, quelli con bisogni educativi speciali, quelli con disturbi specifici dell’apprendimento, i disgrafici, i discalculici, gli autistici; tutto messo sulle spalle e sulla sensibilità di chi insegna, di chi li vede ogni giorno e deve trasferire loro qualcosa di utile per crescere e vivere e capire, però, come potranno fare al meglio, tenendo conto di tutto. E poi, spesso si fa scuola in ambienti fuori norma con un miracolo che si rinnova ogni anno. I perspicaci cantori del merito di tutto questo non parlano mai, non sanno, non se ne occupano, non è il problema”. (Fabio Luppino)