In questi giorni di profondo dolore per ciò che sta accadendo in Israele e a Gaza sembra davvero difficile che le parole possano essere d’aiuto di fronte allo strapotere del terrorismo più spietato e al desiderio di vendetta ‘a tutti i costi’.
Si potrebbe dire che ognuno ha le sue ragioni, ma nessuno ha ragione. Troppo semplicistico, forse, ma profondamente evidente visto la completa sordità dei contendenti.
Negli Stati Uniti si sta assistendo ad un indicativo e positivo distacco dall’alleanza ‘blindata’ con Israele, da una parte della comunità ebraica che manifesta il proprio disaccordo e il proprio dolore urlando ‘Not in my name’.
Vi sono tanti modi per testimoniare e raccontare i conflitti e in questi giorni su due testate americane liberal si sono levate voci limpide e autorevoli, quali quelle di David Remnick sul ‘New Yorker’ del 6 novembre (‘In the Cities of Killing’) e di Etgar Keret su ‘The Atlantic’ online del 27 ottobre us (‘The Whole Country has PTSD*’).
Entrambi mettono in evidenza la profonda ferita che l’attuale conflitto ha inferto anche a coloro che hanno sempre auspicato la convivenza, i due stati, il dialogo. Soprattutto nei racconti di Keret, che posta quotidianamente le sue ‘war notes’, emerge la tragedia di coloro che sembrano, per la prima volta, non credere più nei valori e nel progetto dello Stato di Israele.
Ma così non deve essere. In quel lembo di terra è nata ed è cresciuta la cultura in cui ci riconosciamo, è la terra dei grandi testi ai quali – non solo noi – abbiamo sempre fatto riferimento, alla parola che cura.
La cosiddetta letteratura di guerra è ricca di esempi, di memorie e di testimonianze – da Tucidide a Vassili Grossman – attraverso le quali conosciamo le insensatezze e la violenza dei conflitti, la loro profonda assenza di ragione.
Lo scorso anno ho pubblicato il libro di una bravissima giornalista scientifica irlandese, Mari Fizduff, che in ‘Cervelli in guerra. Neuroscienze del conflitto e del peacebuiding’ descrive in modo estremamente interessante la dinamica dei nostri comportamenti di fronte al conflitto e indica come la genetica comportamentale, le neuroscienze sociali e la psicologia politica possano aiutarci a invertire la rotta e a “costruire un noi più grande”: comprendere il peggio delle tendenze umane e quanto sia facile suscitarlo nella maggior parte di noi è fondamentale.
Tuttavia, non meno cruciale è la consapevolezza di quanto la nostra storia ci ha dimostrato: in quanto esseri umani in continua evoluzione, possiamo andare oltre le nostre attuali tribù per interagire con gli altri e portare agli abitanti di questo piccolo mondo interconnesso tutto il bene di cui l’umanità è capace.

Voglio ora però scomodare un altro autore della mia casa editrice, grande amico e anima critica della migliore classe intellettuale americana, Joshua Cohen.
Egli appartiene alla grande tradizione narrativa ebraico-americana, da Isaac B. Singer a Philipp Roth a Jonathan Safran Foer, che sa radiografare e raccontare vizi, virtù, tendenze, mode, pensieri della modernità in modo mirabile.
Cohen ha pubblicato lo scorso anno un libro illuminante sul rapporto tra realtà e finzione, descrivendo la storia di Benzion Netaniahu, padre dell’attuale primo ministro di Israele Beniamin, attraverso un libro che si dichiara ‘minore’, ma che non lo è assolutamente: ‘I Netanyahu’. Dove si narra un episodio minore e in fin dei conti trascurabile della storia di una famiglia illustre.
Joshua è stato ‘allievo’ del più grande critico letterario americano della seconda parte del Novecento, Harold Bloom, che lo ha accudito e con il quale si è creata una indissolubile complicità intellettuale. Bloom un giorno racconta della sua esperienza di ‘guida’ come unico docente di origini ebraiche per l’accoglienza a Benzion presso il Corbin College, dopo essere stato considerato persona non gradita negli atenei di Israele per le sue idee troppo radicali. Dalla notizia alla finzione il passo è breve e Cohen mette in campo tutte le sue doti di prestigiatore della parola, della metafora e dell’ironia del grande narratore, con memorabili pagine di scoppiettanti rappresentazioni della presunta superiorità del personaggio, del totalmente anarchico comportamento dei ragazzini Netaniahu (che distruggono la casa dell’ospite), dell’assurdità del protagonista che vorrebbe rappresentare una autorità identitaria ormai appassita.
Qualche anno prima Cohen ha pubblicato un libro altrettanto illuminante, dal titolo italiano
‘Un’altra occupazione’ (in inglese ‘Moving King’). E’ la storia di due amici, Yoav e Uri, che dopo il servizio militare obbligatorio in Israele, nella striscia di Gaza, decidono di andare per il tradizionale anno di riposo e recupero a New York, per lavorare con il cugino di Yoav, David King, che possiede una ditta di trasporto ben avviata. In verità il lavoro che i due amici svolgono scoprono essere più quello di esecutori di pignoramenti e di sfratti, per i quali a volte bisogna intervenire anche con la violenza.
Insomma, tra la dimensione del lavoro nell’esercito per controllare i confini della Cisgiordania e quelli della Striscia di Gaza e il lavoro come dipendenti della ditta di traslochi vi è una profonda e concreta affinità. Peraltro il titolo italiano del libro, concordato con lo stesso autore, trasmette efficacemente il doppio gioco del termine: occupazione come lavoro, ma anche occupazione come processo di conquista di un territorio.
Cohen gioca molto sulle metafore, sui doppi sensi, e certamente primeggia in quello che Freud chiamava moto di spirito. Spesso la letteratura di origine ebraica si è caratterizzata per un uso libero e anche provocatorio dell’ironia e del sarcasmo, anche come mezzo di spaesamento e di sfida della morte.
Keret nella bellissima intervista rilasciata a The Atlantic, di fronte al pianto della ragazza cui è morto il padre, chiede di resistere e sostiene il valore benefico, quasi terapeutico, della scrittura.
Di fronte alle bombe e all’assenza di umanità dell’attuale conflitto, sembrano prevalere solo le parole della violenza, ma le parole scritte, più meditate, sofferte, che tentano di dare un senso al dolore, sono quelle che probabilmente rimarranno nel tempo.
* PTSD, Disturbo da stress post-traumatico