Manfellotto racconta  il rapporto straordinario tra L’Espresso e il mondo dei fotografi

Condividi

Bruno Manfellotto  uno dei  giornalisti che hanno fatto la storia dell’Espresso, di cui è stato vice direttore dal ’94 al 2000 e direttore dal 2010 al 2015, racconta  un pezzo della storia del settimanale attraverso il  rapporto con i migliori  fotografi che hanno segnato gli anni d’oro del settimanale.  Un lungo percorso giornalistico che Manfellotto  ha fissato  nella mostra ‘La nostra storia” ovvero 60 anni in Italia e nel mondo attraverso le fotografie dell’Espresso”, di cui è stato  il curatore,    organizzata a Roma nel 2015.  Organizzato intorno a otto stanze tematiche il racconto si sviluppava  attraverso  circa 350 tra foto d’autore, copertine, bozzetti, disegni,  patrimonio di immagini, trovato nell’archivio dell’Espresso dalla photo editor Tiziana Faraoni insieme ai colleghi del servizio fotografico. 

La mattina andavamo in via Po

di Bruno Manfellotto

La fila si snodava, confusa e vociante, lungo il marciapiede di via Po, all’altezza del numero 12, dinanzi alla palazzina anni Venti dove aveva sede l’Espresso. Ogni lunedì mattina, fino a tutti gli anni Novanta. I questuanti in coda venivano ricevuti a uno a uno da Franco Lefevre e Franca De Bartolomeis, sommi giudici dell’immagine d’autore. Il rito si svolgeva al primo piano dove agli esordi, nel 1955, la redazione si era sistemata. Poi, visto che le cose andavano assai bene, il giornale aveva conquistato anche il secondo piano convincendo al trasloco una vecchia pellicceria, e poi il terzo per sistemare un’amministrazione sempre più robusta e poi era salito ancora più su fino alla piccola mansarda eletta a ufficio, con snobistico understatement, da Carlo Caracciolo, l’editore, che lì lavorava, riceveva e pensava ad altri giornali da comprare nella ricca provincia italiana.

Mario Dondero

I fotografi, dunque, si accalcavano disordinati a decine in attesa del loro turno. Alcuni grandi – Caio Garrubba, Mario Dondero, Gianni Palma, Vezio Sabatini, Uliano Lucas – s’erano conquistati il privilegio di saltare la fila, insomma avevano il permesso di presentarsi anche in altri giorni e in altre ore, purché avessero per le mani merce davvero preziosa.

Uliano Lucas

Franca e Franco, inflessibili, trattavano tutti allo stesso modo e, lentino alla mano, esaminavano con cura la mercanzia: centinaia di immagini in bianco e nero, o a colori, stampate in formato18x24 o in slide ordinate in astucci di plastica colorata. Ecco le dive sul set, gli attori in palcoscenico sotto i riflettori o nel buio dei teatrini off-off, gli intellettuali a convegno, le città assalite dal cemento, la provincia operosa e opulenta, le fabbriche, le officine, gli operai e i padroni del vapore, la ricchezza dei consumi e la povertà delle periferie. Insomma, la vita, il Paese. E i politici – ah, i politici! – tutti i politici, leader e peones, alla Camera, al partito o d’estate sotto l’ombrellone, in colloqui rivelatori o in occasioni imbarazzanti, in campagna elettorale o con moglie e figli. Il potere immortalato dallo scatto malandrino. La casta denudata e mostrata al pubblico.

Gianni Palma

Con i fotografi si andava a braccetto: si chiedeva il loro aiuto per illustrare un articolo, o si costruiva un servizio sulle notizie che essi stessi avevano scovato con l’obiettivo. Tempi lontani e irripetibili? Tutto finito per sempre, o no? E che cosa resta di quella scuola, di quella tradizione, di quel rigoroso codice etico e civile ora che il glorioso settimanale di via Po è passato di mano per la terza volta, ancora una volta comprato e venduto? Me lo chiedevo visitando i due padiglioni del Mattatoio di Roma, il museo del Testaccio dove, grazie alla tenacia di Ugo Sposetti, patron e nome tutelare delle vestigia del Pci, è stata allestita la bella mostra su Enrico Berlinguer a quarant’anni dalla morte dopo il comizio sul tragico palco di Padova.

Caio Mario Garrubba

Le pareti del Mattatoio sono tappezzate di tantissime stampe in bianco e nero, e quante di quelle ho viste passare sulle scrivanie dell’Espresso! Anche di Panorama, in verità, che peraltro poteva contare su campioni come Rudi Frei, in comune con “Time”, Mauro Vallinotto, Alberto Roveri, Adriano Alecchi. Per un breve periodo, a guerra di Segrate non ancora conclusa, L’Espresso e Panorama si ritrovarono entrambi in casa Mondadori, insomma con lo stesso editore: concorrenti e conviventi. Così il lunedì Lefevre sceglieva le foto in via Po, ma non solo per l’Espresso: saltava su un aereo per Milano, piombava a Panorama e distribuiva le slide prescelte cavandole dal taschino della giacca: «Metti questa, metti questa…».

Certo, anche a Panorama l’immagine contava eccome, specie in copertina, ma era all’Espresso che si venerava Sua Maestà la Fotografia. Un culto che era nel suo stesso Dna. Del resto, il giornale fondato da Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari, mirabile miscela di giornalismo moderno e forte impegno civile, era nato sulla scia di Omnibus e di Oggi che Benedetti aveva diretto nei Trenta-Quaranta con un altro campione, Leo Longanesi, e già lì lo scatto d’autore era considerato ingrediente fondamentale. A Via Po si compì un ulteriore passo in avanti: la foto cominciava a “fare notizia” in sé, dava informazioni come e più di un articolo, apriva finestre su mondi e situazioni sconosciuti. E il formato “lenzuolo” sembrava fatto apposta per agevolare l’impresa: l’intento era offrire al lettore un preciso punto di vista, e quindi l’immagine veniva lavorata, scontornata, ingrandita fino a sgranarla per esaltare un dettaglio che si considerava determinante ai fini della storia da raccontare: a volte stampe superbe venivano tagliate e incollate su un nuovo fondo solo per avvicinare due personaggi di cui si svelava una certa intimità, ma che nello scatto originale apparivano troppo lontani…

Carlo De Benedetti insieme a Bruno Manfellotto, alla presentazione romana del Espresso (2011) di cui era diventato direttore

Era come se fosse scoppiata una febbre, la voglia di vedere, di conoscere tutta la verità dopo che per vent’anni il fascismo l’aveva oscurata: mentre negli Stati Uniti nascevano Life e Time e giganti come Phil Stern, George Rodger, John Phillips testimoniavano la pace in casa e le bombe nel mondo, in Italia la censura vietava di raccontare la realtà del Paese e il disastro della guerra; e se Robert Capa immortalava il miliziano caduto in Spagna, qui si ripiegava sulla casa reale, le loro maestà e la corte al seguito. Caduto il regime, la macchina fotografica era finalmente tornata regina. Ma nel più drammatico dei modi. A pensarci bene era avvenuto la tragica mattina del 29 aprile 1945 quando i corpi di Benito Mussolini e di Claretta Petacci, uccisi dai partigiani, erano stati appesi a testa in giù a Piazzale Loreto, teatro un anno prima di un brutale eccidio nazifascista: dinanzi ai corpi martoriati i fotografi scattavano e scattavano, anche all’obitorio prima e dopo l’autopsia del Duce. Per un feroce contrappasso, dopo un ventennio di buio, la realtà torna sulla pellicola nella sua forma più cruda.

Dopo tanto silenzio è necessario recuperare il tempo perduto, e L’Espresso è pronto. La mattina del 2 ottobre 1955, giorno del debutto in edicola, gli italiani si ritrovano tra le mani uno specchio che finalmente restituisce loro la vera immagine del Paese in cui vivono. I lettori cominciano a incontrare il potere e i suoi vizi, a misurare i diritti da difendere; scoprono la speculazione edilizia con Manlio Cancogni (“Capitale corrotta = Nazione infetta”) e il Mezzogiorno dimenticato (“L’Africa in casa”) con Livio Zanetti; viaggiano in America, in Francia, in Cina, in Vietnam accompagnati da Goffredo Parise, Alberto Moravia, Tiziano Terzani, Andrea Barbato. Presto scoprono la vitalità dell’Italia post-fascista: Hollywood si trasferisce sul Tevere, nasce la Rai, tutti sognano una Fiat 600, a Milano risorgono il teatro, la cultura, la moda, l’impresa, la grande editoria, cambiano i costumi e Camilla Cederna è lì a testimoniare e raccontare mode, abitudini, tic.

Si indaga senza scrupoli sulla prostituzione, sullo scialo dell’aeroporto di Fiumicino, sui farmaci inutili, sulla magistratura indolente e prepotente, sui segreti del Vaticano, sulla riforma della scuola, si stilano le prime mappe del potere. È sulle pagine dell’Espresso che si svelano i piani eversivi di Junio Valerio Borghese e il tintinnar di sciabole dei carabinieri del generale De Lorenzo che allarmò Parri e Nenni. E non si dà tregua a quella che più tardi Scalfari e Peppino Turani chiameranno “la razza padrona”, cioè l’intreccio perverso tra politica, capitale pubblico e privato, favoritismi e occupazione del potere che ancora distingue l’anima italiana più profonda. E in pagina c’è sempre un’immagine che illumina la parola. Fotogiornalismo.

Quando con Tiziana Faraoni, eccellente photo editor, preparavamo la mostra fotografica per i sessant’anni dell’Espresso, ritrovammo in archivio centinaia di stampe che avevano fatto la storia del giornale. Grande fu la commozione quando da una busta ne spuntarono alcune del fotografo americano Dana Stone che nel 1968 avevano illustrato i servizi dal Vietnam firmati da Goffredo Parise. I suoi scatti precisi e partecipati restituivano la tragedia vietnamita come non s’era mai vista: soldati con il terrore negli occhi, soli, prostrati, abbandonati nella foresta. Per la prima copertina era stata scelta la foto di un marine ferito, dolorante, appoggiato a un albero, l’elmetto a terra, una smorfia di orrore. Il volto di un’apocalisse che la Casa Bianca e il Pentagono continuavano a negare: una volta pubblicati, sconvolsero l’opinione pubblica mondiale, contribuendo a modificare il giudizio politico e umano su quella tragica avventura.

La parete di cover dell’Espresso dedicate a Berlusconi (95 !), allestita per la mostra fotografica sui 60 anni del settimanale. Al centro del pannello, c’è la foto di Berlusconi con pistola scattata da Alberto Roveri nel ’77.

Nell’archivio, tanti altri reperti preziosi. Un vero tesoro: i cortei del Sessantotto italiano e del Maggio francese; l’Europa della Guerra Fredda e le sanguinose rivoluzioni africane; i carri armati sovietici a Budapest e a Praga; le stragi e gli omicidi di mafia documentati da Letizia Battaglia e Toni Gentile; gli atti di terrorismo fissati da Rodrigo Pais e Paolo Pedrizzetti; i grandi dell’industria, del cinema, del teatro visti da vicino; la lunga parata dei politici di Massimo Vergari, Vezio Sabatini, Angelo Palma; la foto-inchiesta sui padiglioni degli ospedali psichiatrici condotta da Mauro Vallinotto; un giovane e rampante Silvio Berlusconi con un revolver sulla scrivania ritratto nel 1977 da Alberto Roveri; le foto di Berlusconi e dei suoi amici che in piena Tangentopoli brindano sulla tolda del “Barbarossa” di Cesare Previti, scovate da Chiara Beria di Argentine e che Claudio Rinaldi volle in copertina (“La fiera delle vanità”); la tragedia dell’emigrazione raccontata da Massimo Sestini; la Roma pacchiana di Umberto Pizzi e i superbi lavori di Nick Út, Uliano Lucas, Gianfranco Moroldo, Gilles Caron, Mario Dondero, Franco Zecchin…

Glorificato con il “lenzuolo”, il culto dell’immagine è rimasto anche con il passaggio al tabloid, cui L’Espresso si piegò per inseguire Panorama in un appassionante testa a testa (si volava sulle 4-500mila copie); ma è continuato negli anni successivi, anche dopo la scomparsa dei “provini a stampa” e l’irruzione del digitale, per esempio con il reportage fotografico di 8-10 pagine inaugurato da Daniela Hamaui e Tiziana Faraoni, confermato e arricchito dopo, fino alla cessione del giornale. Già, perché inesorabile incalzava la crisi dell’editoria che per primi avrebbe colpito i settimanali. L’ho sentito pronosticare per la prima volta più di vent’anni fa, poi si è provato a salvare il salvabile, almeno – come dire? – a restaurare e lucidare la foto del fondatore, insomma la testata da cui era germogliato un gruppo editoriale poderoso, prima la Repubblica poi la gagliarda catena dei giornali locali. Ceduti anche questi dopo L’Espresso. Evidentemente si è pensato che i costi fossero superiori ai benefici. E anche alle virtù della memoria.

Sul perché tutto sia precipitato è stato scritto e detto molto, e qui non si può che sintetizzare semplificando la complessità. Ha pesato la rete, certo, invasiva totalizzante onnipresente e gratuita, e non c’è granché da spiegare. Però si aggiunga: si sperava che il web restituisse rapidamente gli introiti persi dalla carta, ma finora non è stato così: per incassare l’equivalente di una copia in edicola occorrerebbero più o meno quattro abbonamenti digitali perché il loro prezzo è irrisorio (fino a poco fa era tutto gratis: il peccato originale); grazie al web, è vero, si sono salvati New York Times, Guardian, Le Monde, ma perché scritti in una lingua letta e parlata ovunque: a sud e a nord di Firenze, invece, anche l’italiano suona un po’ straniero. Da decenni, poi, se i costi salgono (redazione e distribuzione) calano copie e pubblicità, anche perché i grandi marchi, massimi inserzionisti, macinano gran parte del loro fatturato all’estero: per questo preferiscono siti web dedicati e spot tv. Così i bilanci sono andati in rosso e ciò ha indotto gli editori a tagliare la foliazione – riducendo lo spazio per servizi e reportage più impegnativi – e ad avviare un’ondata di pensionamenti anticipati che hanno privato le redazioni di competenze ed esperienze. Una tempesta perfetta.

E però detto questo, L’Espresso ricomprato e rivenduto è ancora in edicola, comincia ora una nuova avventura, e i suoi bravi giornalisti continuano a battersi tenacemente per un prodotto di qualità che non secchi quelle radici che danno forza a un marchio tuttora nobile e riconosciuto. Dunque, che fare? Domanda ostica, anche perché l’antica formula originale è probabilmente irripetibile. Forse per rispondere occorre rifugiarsi nel paradosso. Proprio perché le copie diminuiscono, la pubblicità non condiziona più editori e giornalisti, e l’intelligenza artificiale in arrivo minaccia un’informazione uniforme omologata conformista acritica, sarebbe forse il caso di darsi da fare parafrasando il vecchio motto di Enrico Cuccia: non contare le copie, come lui non intendeva contare le azioni delle imprese, ma pesarle, cioè renderle più autorevoli e sorprendenti con un’informazione più accurata e soprattutto molto più aggressiva, non nei toni e nelle parole, ma nei contenuti. Cercasi editore disposto ad accettare la sfida.

Bruno Manfellotto