Povere città nostre prese a schiaffi dall’inciviltà

Condividi

Eravamo i più bravi e accorti in tema di gusto e qualità del vivere,
capacità estetiche in grado in individuare ed esaltare il bello. Oggi, invece, siamo sopraffatti dal disordine estetico. A cominciare dal decoro urbanistico

COMUNICAZIONE POLITICA – Prima Comunicazione, Dicembre 2023

Oggi a chiedere un po’ di ordine estetico corri il rischio di apparire un reazionario (di destra o di sinistra), un limitatore della creatività e della libertà intellettuale.
Sarà, ma il risultato di questi ultimi anni è davvero deprimente.

Il decoro urbanistico, vera e propria pelle espressiva di una città, prende sberle ovunque. Le città, i loro centri e le loro strade sono la carta d’identità più immediata e plastica per misurare lo stato di civiltà di una società.

Certo ci sono le leggi, la loro ricaduta nel costruire e definire il vivere in una collettività e quelle infinite decisioni, condivise o meno (in democrazia dovrebbero prevalere le prime), capaci di mostrare il lavoro di una comunità; però, prima o dopo tutto questo, la misura più immediata sta nel guardare ciò che ci circonda. Ed è inutile di fronte a questo risultato lasciarsi confondere dalle parole alate, da impegni vaporosi o volitivi, oppure da rimandi di progetti di lunghissimo respiro. Poi si torna sempre lì: allo stato visivo della tua città, ora e adesso, e a quella banale e inappellabile cartina di tornasole del decoro sotto i tuoi occhi.

Chi ti governa non sa riparare una strada e accorgersi delle buche che evolvono in crateri? Non sa manutenere un marciapiede e comprendere che le vie obbligate di scorrimento dei pedoni – che sono sostanzialmente gli azionisti o gli ospiti delle città – versano in condizioni ignobili? Non sa controllare un tombino palesemente intasato che, alla prima pioggia, trasformerà la strada in una vasca? Non riesce a risolvere il complesso problema della pulizia dei cestini della spazzatura e ne risolve l’annoso problema dello svuotamento eliminandoli così da sradicare il problema alla radice?

Ma se una classe dirigente non sa dirigere cose così minime, basilari e vitali pensate possa avere le qualità per districarsi in quelle complesse? Se non sa vedere l’essenziale quotidiano sarà in grado di progettare l’invisibile futuro?

Poi c’è il lato della creatività individuale, quello che si attribuiscono alcune persone. Queste si riconoscono un diritto dominante d’imporre i loro pensieri e la loro visione artistica scrivendo e disegnando i loro irrinunciabili pensieri dove gli capiti (possibilmente in formati giganti e con cromie a forte impatto). Lo fanno prevalentemente su mezzi pubblici, sulle superfici comuni, in luoghi visibili, nell’incontenibile e irrefrenabile necessità di mostrare al prossimo la propria emotività e denunciarla al mondo intero: sono arrabbiati o sono felici e anziché chiarirsi privatamente con i protagonisti e gli obiettivi dei loro messaggi scelgono la via universale. Lo fanno in forma permanente arrogandosi il diritto di obbligare la società a partecipare il loro stato d’animo (e ovviamente caricando sugli altri individui due costi: quello di essersi, unilateralmente, impossessati di una superficie che dovrebbe essere di tutti e l’onere del ripristino del decoro, che si caricherà la collettività).

E giorno dopo giorno, registrando che la cosa viene vissuta come normale, possibile o non risolvibile – lo pensiamo davvero nel mondo tecnologico del 2023! – tutto diventa accettabile. Subìto.

E quindi ci si abitua a tutto. L’arredo urbano, vera e propria espressione democratica di una comunità, quello che dovrebbe manifestare il segno visivo di una società, la capacità di scegliere come mostrarsi in quegli elementi – siano una panchina, una ringhiera, una fioriera che definiscono il percorso espressivo di una cittadinanza – anziché essere il prodotto dei migliori concorsi e dell’invito a cimentarsi dei segni architettonici dominanti, risultano un accrocco casuale di riparazioni, provvisorietà e improvvisazione.

Perché tanta sciatteria in quella che è forse tra le società più partecipate e condivise della storia?

Forse perché è la prima che avendo eletto la diversità come regina della sua esistenza nega ogni inquadramento, sia esso anche solo formale, in quanto portato di una visione limitante alla creatività e di freno all’improcrastinabile esposizione del genio individuale? O più banalmente, si tratta della rinuncia a imporre l’esercizio sociale di qualunque regola nelle scuole, nelle stazioni o in qualunque luogo pubblico?

Siamo un Paese che non avendo materie prime, ne aveva imposta una nel dibattito del mondo: quella di essere i migliori estrattori di valore immateriale, del gusto e della qualità del vivere, della capacità estetica di sapere individuare il meglio e della capacità di renderlo più accogliente e indimenticabile alla vista e al piacere altrui.

Il risultato odierno? Guardate le nostre città e i loro servizi. Misero e umiliante. Suicida.