TikTok è diventato il terreno di scontro di una battaglia tra superpotenze che va oltre la tecnologia. Gli Stati Uniti premono perché ByteDance ceda la piattaforma, invocando la sicurezza nazionale. La Cina ha risposto blindando l’algoritmo come asset strategico. L’Europa cerca una via di mezzo puntando su trasparenza e controlli.
‘Per Te’
Al centro c’è il ‘Per Te’, il meccanismo che seleziona quali contenuti mostrarci basandosi sui nostri comportamenti digitali. Non è brevettabile né tutelabile come opera d’autore. È un organismo che si evolve nutrendosi di miliardi di interazioni, imparando a prevedere cosa catturerà la nostra attenzione. Attraverso quel flusso passa una porzione significativa della vita cognitiva di centinaia di milioni di persone, soprattutto giovani.
La questione vera è: chi decide cosa entra nel nostro spazio percettivo e cosa ne viene escluso. Chi stabilisce quali narrazioni emergono e quali sprofondano. È un potere che sfugge alle categorie classiche della politica. Non ha visibilità istituzionale né forza coercitiva, eppure modella preferenze, credenze e comportamenti collettivi.
Isaiah Berlin distingueva tra libertà negativa – l’assenza di interferenze esterne – e libertà positiva, la capacità di governare le proprie scelte. Cosa avrebbe pensato di un sistema che ci conosce più intimamente di quanto noi conosciamo noi stessi, che anticipa i nostri desideri e li rimodella mentre li soddisfa? Nessuno ci obbliga a usare TikTok, ma la nostra capacità di autodeterminazione viene erosa quando le preferenze sono il prodotto di un’architettura dell’attenzione progettata per catturarci.
L’Europa ha provato ad arginare tutto questo con il Digital Services Act e l’AI Act. Sulla carta funziona, nella pratica meno. Le piattaforme pubblicano report tecnici impenetrabili, i regolatori procedono in ordine sparso. Noi restiamo spettatori.
L’algoritmo intanto continua ad apprendere. Registra dove indugiamo, cosa saltiamo, cosa rivediamo. Costruisce per ciascuno una bolla informativa diversa. Il problema non è la personalizzazione in sé, ma la sua profondità: una democrazia funziona quando ciascuno abita una realtà calibrata per massimizzare il suo coinvolgimento?
Non si tratta più di chiederci se i dati siano al sicuro. La domanda che mi sono posto in aula in Sapienza con Lorenzo Iannarilli e con gli assistenti virtuali -che mi hanno supportato nello scrivere il testo- è se possiamo ancora costruire uno spazio pubblico condiviso quando l’attenzione viene estratta e rivenduta, quando ogni pausa viene riempita da contenuti ottimizzati, quando la nostra capacità di concentrazione viene riconfigurata. È una domanda alla quale non possiamo sottrarci.












