Martedì 10 giugno, ore 16:17. La schermata bianca di ChatGPT ha imposto un nuovo silenzio globale. Non si trattava di un semplice errore locale o di una disconnessione temporanea, ma di un blackout che ha reso irraggiungibili per ore i sistemi di OpenAI. Se all’inizio la reazione è stata ironica – meme, battute, nostalgie analogiche – la riflessione che resta è ben più seria: cosa succede quando un’infrastruttura invisibile come l’intelligenza artificiale si ferma?
Il disservizio di martedì 10 giugno ha avuto origine da problemi tecnici estesi, come confermato dalla stessa OpenAI, che ha parlato di “tassi di errore e latenza elevati” nei propri sistemi, incluso il generatore video Sora. Mentre l’azienda ha indicato di aver identificato la causa principale, i dettagli non sono stati resi pubblici. Le ipotesi più accreditate parlano di malfunzionamenti nei server o aggiornamenti interni non ottimizzati. Il blackout – che ha colpito duramente anche l’Italia – ha mostrato quanto l’affidabilità dell’IA generativa sia oggi legata non solo al software, ma alla tenuta delle infrastrutture centrali che la sostengono.
Su questo punto, alcune preoccupazioni erano già emerse nel contributo che avevamo realizzato su Prima Comunicazione con Roberto Marseglia sul rapporto tra IA e consumo energetico. Dietro ogni conversazione con un chatbot si attivano data center imponenti, GPU in serie, sistemi di raffreddamento costanti: un’architettura che richiede quantità di energia in costante aumento. Secondo stime citate da Il Sole 24 Ore, i data center potrebbero arrivare a consumare fino al 4% dell’elettricità globale entro il 2030.
Il blackout di ieri ci invita quindi a riflettere su un tema finora poco esplorato: quanto è sostenibile, sul piano fisico e ambientale, l’attuale traiettoria di sviluppo dell’IA generativa?
La domanda si intreccia con un quesito più ampio, che riguarda la coerenza tra le promesse di responsabilità ESG e l’adozione di tecnologie che, così come sono progettate oggi, esercitano una forte pressione su risorse limitate. I criteri ambientali applicati all’IA sono spesso poco trasparenti e raramente sottoposti a verifiche indipendenti. Ma forse è proprio da episodi come quello di ieri che può nascere una maggiore consapevolezza.
Alcune piattaforme alternative – come DeepSeek – stanno esplorando approcci più sobri, sia nella fase di training sia nella distribuzione del carico computazionale. Non è detto che rappresentino una soluzione definitiva, ma indicano una strada diversa: modelli più modulari e scalabili, forse meno performanti in senso assoluto, ma più efficienti nel rapporto tra energia consumata e utilità generata.
In Europa, intanto, la discussione sul Green Deal Digitale resta sospesa tra buone intenzioni e mancanza di strumenti vincolanti. L’assenza di una strategia industriale autonoma sul fronte IA – così come la dipendenza da infrastrutture extra-UE – rende più complesso affrontare il tema in chiave sistemica.
L’intelligenza artificiale non è più (solo) un software: è parte integrante del paesaggio fisico. E come tale, pone questioni che vanno oltre la tecnologia.
La studiosa Kate Crawford aveva già avvertito: “L’IA non è solo codice, è una macchina industriale fatta di miniere, reti elettriche e flussi geopolitici.” Oggi questa “macchina” si prepara a moltiplicare la sua impronta con la generazione automatica di video, nuovi strumenti vocali e funzioni sempre più energivore.
Il blackout non è stato un bug, ma un promemoria. Ci ricorda che l’intelligenza artificiale ha un costo. E che la prossima domanda – forse la più urgente – non sarà più quanto è potente un modello, ma quanto consuma per soddisfare una domanda in crescita senza sosta.
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