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Quando il linguaggio del brand incontra la geopolitica: Jaguar, Tata e la nuova guerra commerciale

La querelle scatenata da Donald Trump contro la campagna pubblicitaria di Jaguar – liquidata dal presidente come “un disastro woke” – rivela stratificazioni geopolitiche che trascendono ampiamente la disputa sul rinnovamento identitario del marchio britannico. Quella che a prima vista potrebbe sembrare l’ennesima schermaglie culturale dell’amministrazione trumpiana si configura invece come l’epifenomeno di una tensione strutturale nelle relazioni commerciali tra Stati Uniti e India, con Tata Motors – proprietaria del luxury brand – trasformata in capro espiatorio di una strategia protezionistica che ridisegna gli equilibri industriali globali.


Non è casuale che la critica presidenziale al rebranding Jaguar coincida temporalmente con l’inasprimento delle misure tariffarie americane nei confronti delle esportazioni indiane. Il 25% di dazi imposto sulle automobili completamente assemblate importate dall’India, entrato in vigore il 3 aprile, e l’ulteriore 25% aggiuntivo previsto dal 27 agosto, che porterà la tariffa complessiva al 50%, disegnano un quadro di confronto commerciale che utilizza i brand come simboli di resistenza economica e culturale.
Il prezzo industriale della geopolitica.


Le conseguenze per il colosso indiano sono state immediate e devastanti. Tata Motors ha registrato un crollo del 62% dell’utile netto consolidato nel primo trimestre fiscale, scendendo a 4.003 crore di rupie, mentre le azioni del gruppo hanno perso fino al 6,6% in una singola seduta, toccando i 661 rupie. La divisione Jaguar Land Rover, fiore all’occhiello del portafoglio Tata e simbolo dell’acquisizione indiana del lusso automobilistico occidentale, si trova ora strangolata da un mercato americano che rappresentava una quota strategica delle sue esportazioni globali.


Il cambio al vertice di Jaguar – con l’uscita di Adrian Mardell e l’arrivo di P.B. Balaji, manager di lungo corso di Tata – assume così una valenza che eccede la normale successione aziendale. Si tratta di un passaggio di testimone che simboleggia la piena indianizzazione di un marchio storicamente britannico, proprio nel momento in cui l’identità indiana diventa un fardello commerciale negli Stati Uniti.
La geografia industriale che emerge da questa vicenda è emblematica delle contraddizioni del capitalismo globalizzato: un brand nato nelle Midlands inglesi, acquisito da un conglomerato di Mumbai, censurato da un presidente americano per ragioni che intrecciano moralismo culturale e protezionismo economico. È la rappresentazione plastica di come l’identità aziendale sia diventata ostaggio delle tensioni geopolitiche, dove ogni scelta comunicativa può trasformarsi in casus belli diplomatico.


L’India nella strategia del contenimento economico


La severità delle misure tariffarie americane nei confronti dell’India – con un 26% che supera i dazi imposti a UE (20%), Giappone (24%) e Corea del Sud (25%) – tradisce una strategia che va oltre le contingenze commerciali per toccare i nodi strutturali dell’ordine mondiale multipolare. Washington utilizza il pretesto delle importazioni di petrolio russo da parte di Nuova Delhi per giustificare una pressione che mira a disciplinare l’autonomia strategica indiana, quel non-allineamento che consente all’India di mantenere rapporti commerciali con Mosca pur rimanendo partner degli Stati Uniti nell’Indo-Pacifico.
La risposta indiana non si è fatta attendere, con il rallentamento delle trattative per l’acquisizione di sistemi d’arma americani e la denuncia della disparità di trattamento rispetto ad altre nazioni con rapporti altrettanto complessi con il Cremlino. È l’ennesima dimostrazione di come la multipolarità contemporanea imponga agli attori regionali scelte sempre più complesse tra fedeltà geopolitiche e interessi economici nazionali.


Tata Motors diventa così il simbolo involontario di questa tensione: un gruppo che incarna l’ambizione industriale indiana di competere sui mercati globali del lusso, ma che si trova ora penalizzato proprio per la sua origine geografica. La vicenda Jaguar illustra brutalmente come nell’era del “decoupling” selettivo, anche i marchi storici possano diventare strumenti di pressione geopolitica.


Il paradosso dell’identità globale


Il rebranding contestato di Jaguar assume così una doppia valenza simbolica. Da un lato rappresenta il tentativo di un marchio tradizionale di reinventarsi per una clientela globale sempre più sensibile ai temi della diversità e dell’inclusione. Dall’altro, questa stessa modernizzazione identitaria viene utilizzata come pretesto per un attacco che nasconde motivazioni economiche e geopolitiche più profonde.
Il linguaggio della “wokeness” diventa così il velo ideologico che copre una strategia di contenimento economico dell’India, paese che Trump percepisce come competitor sleale per le sue relazioni con la Russia e le sue politiche commerciali aggressive. La critica culturale maschera una preoccupazione strategica: l’emergere dell’India come potenza industriale capace di acquisire e rilanciare marchi occidentali iconici.


La vicenda rivela anche i limiti delle strategie di comunicazione globale nell’era della frammentazione geopolitica. Jaguar si trova intrappolata tra la necessità di parlare a mercati progressisti – particolarmente sensibili ai temi dell’inclusione – e la pressione di contesti politici conservatori dove queste stesse posizioni vengono percepite come provocazioni ideologiche. È il dilemma del branding nell’era post-globale: come mantenere coerenza comunicativa in un mondo sempre più polarizzato?

Apertura Foto AP

Redazione PrimaOnline

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