Investimento per gli sponsor e un valore per la società civile. Una ricerca di Reputation Manager mette a fuoco come anche nello sport la reputazione degli atleti sia diventata un asset fondamentale
In un ecosistema sportivo sempre più esposto a media, social e community, per valutare il valore di un atleta non è più sufficiente guardare ai risultati in campo. È necessario andare oltre, misurare l’intangibile.
Questo valore è la reputazione, oggi asset strategico per campioni e sponsor che li scelgono, perchè influisce su fiducia, ingaggi, partnership e performance.
A questo tema è stato dedicato il workshop ‘Top Champion Reputation. La reputazione nello sport: un asset per i campioni, un investimento per gli sponsor, un valore per la società civile’, organizzato da Reputation Manager in collaborazione con DMTC, che si è tenuto l’8 ottobre 2025 a Milano presso l’ Hotel Dei Cavalieri.
All’evento è stato presentato l’osservatorio Top Champion Reputation, la classifica dei 150 sportivi con la migliore reputazione online in Italia e la metodologia alla base dell’Osservatorio.
L’incontro ha offerto l’occasione di approfondire, attraverso una tavola rotonda tra esperti, l’importanza di un’analisi strutturata della reputazione, che possa fornire ai brand KPI di valutazione strategica nella scelta delle sponsorizzazioni.
Nel dibattito insieme ad Andrea Barchiesi, fondatore e ceo di Reputation Manager, sono intervenuti Auro Palomba, fondatore di Community e VibesMedia, il giornalista Massimo Caputi e l’Innovation Manager Ottavio Crivaro.


Barchiesi ha aperto con la necessità di introdurre una nuova metrica specifica, che sia utile ai brand per guidare gli investimenti in sponsorizzazioni sportive. È necessario sapere non solo quanto un campione è seguito, ma quanto e come è reputato. Questo non dipende solo dalle prestazioni sul campo, ma da altri aspetti laterali che vanno dal comportamento all’estetica fino alla vita privata del campione.
Aspetti che vengono costantemente commentati in rete.
Nel momento in cui un brand si associa allo sportivo si crea un “sistema binario”: la reputazione di ciascuno è amplificata da questo legame ma è importante che siano in equilibrio, il testimonial non può essere dissonante rispetto al brand.
Barchiesi ha presentato un focus analitico su Jannik Sinner, l’atleta in cima alla classifica Top Champion Reputation, che sembra godere di uno stato di “iper- reputazione”.
Per il giornalista sportivo Massimo Caputi, “i media hanno un grande ruolo nel costruire o distruggere la reputazione di atleta o di un club, anche attraverso l’amplificazione di alcune notizie (positive o negative)”. Tuttavia i media possono cogliere solo una parte del messaggio reputazionale di un atleta, soprattutto se è lui in prima persona a trasmetterlo. Come ha spiegato Caputi “con Sinner siamo davanti a qualcosa di unico: parla poco in pubblico e quando lo fa non sbaglia. Ma talvolta sono i suoi atteggiamenti a parlare per lui”.
Palomba si è soffermato sul fatto che oggi gli atleti siano delle vere e proprie aziende, intorno alle quali ruotano investimenti e persone specializzate al loro fianco: “all’estero sono già molto avanti nell’integrare la misurazione e l’analisi dei dati nella comunicazione sportiva. L’Italia è ancora indietro ma è questo l’orizzonte a cui guardare perché oggi la misurazione è tutto”.
Sull’importanza di utilizzare i dati anche per migliorare le prestazioni sportive si è concentrato l’intervento di Crivaro che ha evidenziato come la maggior parte dei dati a disposizione che possono essere analizzati ad esempio durante una partita di calcio siano in realtà quelli che non vengono percepiti dal pubblico: “basti pensare che in media un giocatore durante una partita di 100 minuti tocca palla per meno di 1 minuto. La maggior parte di quello che va analizzato è dunque proprio l’intangibile, ciò che non si vede. Oggi la tecnologia è una componente essenziale. Ci sono sensori dappertutto, infrastrutture di calcolo, anche l’uso di dati in tempo reale – ha spiegato – Dal canto suo, la statistica è un utilizzo limitato dei dati. Servono matematica, modelli interpretativi, ma la differenza la fanno la cultura e la competenza, il saperli usare sia da parte degli atleti sia dei manager. E non dobbiamo dimenticare che il dato è sì la cosa più immediata per ottimizzare la performance, ma lo si può usare anche per costruire una narrativa attorno ad uno specifico atleta. Quindi la tecnologia c’è, manca solo la cultura”.